Report Ronnie James Dio – Holy Diver Tour 2005 – Varsavia, 3 ottobre 2005

Di Marcello Catozzi - 10 Novembre 2005 - 12:45
Report Ronnie James Dio –  Holy Diver Tour 2005 – Varsavia, 3 ottobre 2005

Novara, domenica 2 ottobre 2005.
Di buon’ora salgo sulla mia Opel Ascona classe 1988, fedele compagna di tanti viaggi in lungo e in largo per l’Europa, sulla scia di concerti e festival: ancora una volta siamo insieme, on the way of Rock, diretti all’aeroporto di Bergamo; obiettivo: Varsavia, per l’appetitoso “Holy Diver Tour” di Ronnie James Dio. Inserisco “Lock up the wolves” nel vecchio ma potente mangiacassette, entrando così subito in clima concerto. Posteggio l’auto nel parking e mi avvio al check-in, scoprendo che l’aereo per Katowice partirà con un’ora di ritardo. Cominciamo bene! – impreco, pensando al rischio di perdere la coincidenza del treno che da Katowice mi porterà a Lublino, dove sarò ospitato da amici polacchi, due coniugi Dio-fans di lunga data. Nel primo pomeriggio si decolla. Era ora! Una volta sbarcato a Katowice, mi si presenta immediatamente l’opportunità di sfoggiare il mio polacco (imparato in pochi giorni da un amico novarese) all’autista di un pulmino a 12 posti, chiedendo “Do dworza kolèio wego” (che significa: “per la stazione ferroviaria”) ottenendo, come risposta, una frase lunghissima e totalmente incomprensibile, ma intuisco che il minibus è quello giusto. Gli allungo una banconota da 100 zlot e, dopo aver ricevuto il resto, sistemo fiducioso il mio trolley nel bagagliaio. Nel giro di un’ora si arriva alla stazione: ce l’ho fatta! Il tempo di acquistare il biglietto ed eccomi qua, seduto sullo scomodissimo sedile di un vetusto scompartimento che odora di ferrovie, sulla tratta Katowice – Varsavia – Lublino (480 km.). Ho la schiena distrutta, ma non posso nemmeno sdraiarmi, perché i posti sono tutti occupati. Un nativo dall’abbigliamento trasandato ed alquanto maleodorante, sulla cinquantina, seduto accanto a me, mi parla con alito etilico e con l’intento di coinvolgermi in chissà quali dissertazioni; il suo atteggiamento è piuttosto circospetto e, dopo qualche minuto di faticosa “messa a fuoco” della sua richiesta, comprendo finalmente che lo strano tipo intende vendermi alcune bottiglie di super alcolici, opportunamente nascoste in un sacco posto nella rete dei bagagli sopra le nostre teste. Oh, my God..! Come si dirà “astemio” in polacco? Riesco comunque a farmi capire ed, a questo punto, il nostro discorso (!) si trascina su un altro argomento: il calcio italiano. Aarrghh! In quei momenti comincio ad interrogarmi sul perché mi trovi su un treno puzzolente, la domenica sera, sotto queste luci fioche e tristi, con la schiena a pezzi, così lontano da casa mia e dal mio accogliente divano, parlando di calcio con uno sconosciuto semi ubriaco. Mi sento un po’ in crisi, quasi come il protagonista di “Stargazer” dei Rainbow (una delle mie preferite), lo schiavo egizio che, con la schiena rotta pure lui, si chiedeva disperato: “Where is your star? Is it far, is it far?” Sarà colpa della stanchezza, che mi sta causando i primi cedimenti… Devono comunque trascorrere ben cinque interminabili ore, prima che questo lentissimo treno giunga alla stazione di Lublino (ore 22.30), dove ciò che resta di me viene raccolto pietosamente dalla coppia di amici polacchi e caricato su una vecchia e ansimante Golf alimentata a gas. A casa loro vengo rifocillato con un massaggio alla schiena (il marito della mia amica è massaggiatore di professione) e, verso mezzanotte, chiacchierando di musica, si cena con una specialità gastronomica polacca chiamata “bigos”, a base di crauti e salsiccia! Un piatto leggero e digeribile per chiudere una giornata rilassante! Buonanotte!

Katowice, lunedì 3 ottobre 2005.
Dopo una colazione a base di tè e biscotti, mi vesto con felpa d’ordinanza (Dio Tour 2004), cintura borchiata, stivali metal, chiodo di pelle e via, alla volta della stazione di pullman. Mi pento ben presto di non aver portato le mie comode scarpe da ginnastica, poiché Marek (il mio compagno di avventura) è un gran camminatore dal passo di marcia assai spedito; forse si sta allenando per le prossime Olimpiadi, chissà? Il risultato è che, alla stazione, i miei poveri piedi sono completamente martoriati, dopo 45 minuti di camminata veloce! Saliamo sul solito pulmino a 12 posti (scomodissimi) e, nell’arco di 3 ore, siamo in mezzo ai palazzoni di Varsavia, austera città dai grandi spazi e dall’architettura squadrata, retaggio dell’antico regime. La mia schiena? Rotta, ovviamente! L’unica nota positiva è che qui splende un gran sole e ci sono 20 gradi, mentre in Italia continua a piovere e fa già un freddo invernale.

Varsavia, lunedì 3 ottobre 2005.
Ci mettiamo alla ricerca del locale, che raggiungiamo dopo 40 minuti di metrò. A quell’ora (sono le 18.00) qualche decina di metallari ha già stretto in assedio lo Stodola (che in polacco significa “stalla”): abbigliati di nero, fanno l’effetto di tanti corvi appollaiati sui muretti e sulle recinzioni che delimitano l’ingresso. Mi unisco ai metal-pennuti e faccio conoscenza con alcuni esponenti del Dio-Fanclub nazionale, i quali sperano ardentemente di incontrare il loro idolo. Va detto, a tale proposito, che Ronnie James Dio non è mai stato in Polonia, eccezion fatta per la parentesi come “special guest” del 2000, in occasione del Deep Purple + Orchestra Tour. Mentre scambiamo due chiacchiere, ci arrivano le note di Holy Diver, essendo ancora in corso il sound-check. La corpulenta Ursula (segretaria del Fanclub) non sta più nella pelle e fuma nervosamente, sperando di incontrare la band durante l’aftershow: in particolare adora Rudy Sarzo e mi mostra la sua creazione: una t-shirt personalizzata che vorrebbe consegnare di persona a Rudy. La capisco: dopo tutti questi anni di attesa, le auguro di cuore che il suo sogno si avveri.
Verso le 20.00, quando la folla ha raggiunto un numero assai considerevole, vengono aperti i cancelli e ci si introduce nella sala in cui spicca il palco, dietro il quale si intravede il telone che raffigura la celebre cover di Holy Diver, con il prete che annaspa tra le onde increspate sotto lo sguardo del gigantesco Murray (il famoso enigmatico personaggio – mascotte che ricorre nell’intera opera di Dio). Cerco di piazzarmi in un punto di osservazione favorevole, per godermi il concerto tanto sospirato. Mi guardo intorno e constato che il locale si sta riempiendo. Ci si stringe, mentre l’emozione comincia lentamente a salire: si avvicina il momento in cui le sagome familiari appariranno sul palco. Dopo tutti gli innumerevoli Dio-show a cui ho assistito in questi anni, la mia emozione è sempre altissima, anzi direi che ogni volta aumenta: forse, con l’avanzare dell’età, si diventa veramente più sensibili, chissà…
Ora le luci si spengono, il coro “Dio, Dio, Dio…” si fa sempre più insistente, mentre l’inquietante sigla di introduzione si diffonde nell’aria. I battiti cardiaci sono in vertiginoso aumento. It’s time! Un pensiero corre per un istante agli amici più cari, che non possono condividere con me questi momenti cruciali…
Le ombre tanto attese, ad una ad una, prendono possesso del palco. La line-up è la solita:

– Ronnie James Dio: vocals
– Craig Goldy: guitar
– Rudy Sarzo: bass
– Simon Wright: drums
– Scott Warren: keyboards

La schitarrata di Craig detta i tempi di TAROT WOMAN, evocando l’epopea gloriosa dei mitici Rainbow. La voce di Ronnie si impadronisce della scena, levandosi decisa, alta e forte come sempre: “I don’t know, I don’t know…”. Dopo qualche secondo ho già la pelle d’oca in tutto il corpo: siamo in media, dunque! La chiusura di questo pezzo dal ritmo incalzante che accende i cuori si fonde con un’assordante ovazione.
Il piccolo grande Elfo è lì, a pochi passi da me ed appare in una forma strepitosa; l’audience è caldissima: ormai ho dimenticato tutti i problemi e i disagi del viaggio, addirittura non avverto neanche più dolore alla schiena!
La prossima canzone è un altro straordinario analgesico: THE SIGN OF THE SOUTHERN CROSS, i cui riff si propagano nell’atmosfera rovente, riportandoci indietro negli anni, a bordo di un magico veliero del tempo (“Sail away to the sign…”), fino ad approdare nel periodo migliore della storia dei Black Sabbath; la voce di Ronnie arriva dritta al cuore: “Look beyond your own horizons, sail the ship of sign…”. Le mistiche liriche tagliano l’aria e penetrano nello stomaco; Craig revoca il fantasma di Toni Iommi ed i brividi mi scorrono su e giù per la spina dorsale durante questi minuti che vorrei non finissero mai.

Dopo questo “sballo” viene introdotto un altro brano che mi ricorda anni lontani, in cui mi sentivo reietto ed emarginato a causa dei miei gusti musicali (tranne quando mi trovavo nel mezzo della bolgia dei concerti rock, ovviamente): ONE NIGHT IN THE CITY, in cui Dio dà un saggio dell’estrema pulizia della sua voce, potente e inconfondibile, unica ed inimitabile. “One night, one night…” Chi potrà mai essere in grado di avvicinare (non dico eguagliare) tutta l’immensa energia che racchiudono in sé certi ritornelli? “One night, one night…”. Quale voce potrà mai raggiungere tali vibrazioni, quale ugola potrà mai essere in grado di suscitare certe emozioni?
L’intesa del gruppo è perfetta e siamo tutti rapiti dalla magia che solo i grandi musicisti sanno creare. A proposito di magia, a questo punto si accendono i due mega schermi posizionati ai lati della sala ed i nostri occhi si posano su una scenografia che ricorda Star Wars, con le scritte (in polacco) che scorrono dal basso in alto, in prospettiva. Intuisco il senso della storia: “A long time ago, in a galaxy far away…” le frasi scorrono e comprendo che la trama riguarda l’eroica guerra combattuta dalla Flotta Ribelle (l’Armata Dio) contro l’Esercito Imperiale (la Disco) fino alla vittoria finale. Intanto uno stormo di dragoni sorvola oceani e montagne sputando fuoco, fino a che il “difensore” Murray prende le dovute contromisure, annientando i prepotenti draghi cattivi con perentorie scariche di fulmini. “It’s time to be killing the Dragon!…”, è il trionfo del Bene sul Male, nell’eterna dicotomia che ha costituito il perno strutturale di tanti (capo)lavori del magico Folletto, ultimo dei quali “Magica”. Ora lo zoom sul volto di Murray lascia intravedere, in dissolvenza, i lineamenti di Ronnie, il suo intenso sguardo e la sua ammaliante voce che pronuncia, nell’ambito del suo breve discorso, i titoli delle canzoni più celebrate, toccandoci l’animo ed introducendoci nell’atmosfera di “Holy Diver”, il suo primo album “solo” della storia (siamo nel 1983), giudicato – secondo alcune correnti di pensiero – uno dei migliori album della storia. Un breve filmato – tributo (in pratica: un filmato nel filmato) ci ricorda quegli anni d’oro, con le immagini che si alternano mostrandoci ora l’uno, ora l’altro dei grandi protagonisti di quell’avventura: Vinnie Appice, Vivian Campbell, Jimmy Bain… Guardando quei brevi stacchi, rifletto sulla scelta di Ronnie di omaggiare i suoi ex compagni e penso che ciò sia indicativo di una buona dose di generosità da parte sua, in considerazione degli eventi che hanno portato ai noti “split”.
Improvvisamente i riff iniziali di STAND UP AND SHOUT ci procurano un fortissimo scossone e, nella zona centrale della platea, i più indemoniati riprendono a saltare ed a spingersi con inesauribile vigore l’uno contro l’altro, in un forsennato pogo! A seguire, ecco l’indimenticabile e rocciosa HOLY DIVER, cantata a gran voce da tutti, appassionatamente, al punto che i boati della folla riescono quasi a coprire le migliaia di watt sprigionate dai Marshall. Il potente motore bicilindrico “Sarzo – Wright”, a pieno regime, fornisce un supporto ritmico impressionante.
E poi GYPSY, tiratissimo pezzo che accolgo con enorme piacere: l’ultima volta che si ebbe la fortuna di ascoltarlo dal vivo fu nel 2000, durante il “Magica Tour”. Mi chiedo come faccia Ronnie ad eseguire questa canzone in modo così fedele (rispetto alla versione in studio), con le notevoli difficoltà che essa comporta dal punto di vista vocale! E’ semplicemente unico! A volte penso che non sia umano, lo confesso! Al termine di questa fatica presenta, con il consueto urlo: “Simon Wriiiiiight”! Sono troppo curioso di scoprire come sarà articolato, stavolta, l’assolo di Simon e perciò mi appresto a seguire con le orecchie spalancate il suo DRUM SOLO. Per chi non lo sapesse, va detto che in ogni tour Simon Wright propone una sua personale interpretazione di brani musicali classici, i quali solitamente si sposano in modo azzeccato con il suo possente martellare. E’ stato il caso di “1812” (era Rainbow), il celebre drum solo del più grande batterista della storia, rispolverato nel 2004 in onore, appunto, di Cozy Powell. Oppure del celeberrimo “O fortuna” di Carmine Burana, presentato nel tour del 2002. Stavolta la scelta è caduta su “Jupiter” del compositore Gustav Holst (1874 – 1934), conosciuto dagli amanti della musica classica per la sua originale “Planets Suite”. Trovo che questo pezzo, vivace e gioioso, si adatti a meraviglia agli stacchi di Simon, ai suoi bruschi cambi di ritmo ed alle sue rullate, ed il connubio risulta riuscitissimo, in perfetta sincronia con i flash dei riflettori che dipingono ora di giallo, ora di verde, ora di viola i tamburi che oscillano sotto i colpi del tellurico Simon. Al termine di questa esibizione il nostro eroe raccoglie i meritati applausi, celebrati dal ritorno in pista degli altri componenti. “Simon Wriiiiight”!

E si riprende con l’intensa CAUGHT IN THE MIDDLE, altro mirabile gioiello di “Holy Diver”, che mi regala brividi incomparabili, le cui radici affondano in un tempo lontano, subito seguita dalla suggestiva DON’T TALK TO STRANGERS, con la figura di Ronnie illuminata da un fascio di luce azzurra mentre la sua voce, più ispirata cha mai, si leva dolce ma imponente nell’intonazione delle prime strofe; fortunatamente il suo volume è tale da coprire le sguaiatezze di un pubblico letteralmente in trance, che vuole cantare a tutti i costi. Mi godo per l’ennesima volta questa strepitosa canzone, fatta di momenti melodici e di episodi rudemente metallici, in una splendida alternanza che scuote il mio povero stomaco a digiuno, come nel passaggio che prelude all’esplosione finale: “Don’t dream of women, ‘cause they’ll only bring you… WHAT?” E tutti a urlare: “Doooooown!” subito seguiti da un grintoso Ronnie, che nel prendere la nota di “Down” ci insegna come si canta! Semplicemente immenso! Ma non abbiamo neanche il tempo di riprendere fiato: l’introduzione di STRAIGHT THROUGH THE HEART è come un pugno nello stomaco e, così, si torna a saltare come tante anime agitate dal sacro fuoco del Rock: “Here it comes again…”. Non c’è nemmeno un secondo di pausa: la chitarra di Craig, i cui ululati si levano nell’aria rovente della bolgia, introduce la bellissima INVISIBLE, dalla trama dannatamente metal e dalle parti vocali tremendamente impegnative; eppure il magico Folletto se la cava alla grande, permettendosi altresì di saltellare come un grillo avanti e indietro per il palco.

Mentre lo vedo muoversi, mi convinco che solo Lui può cantare certe canzoni: i tantissimi Tributi prodotti da diversi musicisti della scena mondiale in suo onore – pur ponendosi come prodotti validissimi sotto il profilo discografico – provano che Dio è inarrivabile ed inimitabile. Del resto i suoi 40 anni di onorata ed invidiabile carriera lo stanno a testimoniare e resteranno scolpiti nella roccia per i secoli a venire.
Non c’è pausa, dicevo, e si procede con RAINBOW IN THE DARK, con le tastiere di Scott Warren (dall’espressione allucinata, come sempre) sugli scudi. Saltiamo tutti come forsennati, accompagnando la band in questa stupenda canzone che, come una pietra preziosa senza età, luccica e brilla sempre come nuova, nonostante il trascorrere degli anni. Ho ascoltato questo pezzo migliaia di volte, ma le mie sensazioni, ad ogni ascolto, sono sempre le stesse: è come un fiore che continua a sbocciare in un trionfo di colori sempre diversi!

Non abbiamo nemmeno il tempo di applaudire: ora i riff di Craig si fanno più cupi ed inquietanti, perché è il momento di SHAME ON THE NIGHT, che sprizza metallo pesante da tutti i pori: i brividi ricominciano a correre lungo la mia schiena martoriata e per la mia povera spina dorsale questi riff sono meglio di qualsiasi terapia a base di tens o di ultrasuoni. Era una vita che aspettavo di ascoltare questa canzone in versione “live” e perciò me la bevo tutta, senza perdermi neanche una nota! Trovo che il potere della musica (quella vera) consista proprio nella capacità di farmi rivivere momenti passati, rievocando stati emotivi profondi, che giacciono nel cassetto dei ricordi: “Shame on you…” la sapiente modulazione impressa dalle corde vocali di Ronnie si fonde con le “good vibrations” dello spirito. It’s magic!
Ora il mitico Elfo lascia il resto del gruppo per il GUITAR SOLO di Craig Goldy, anch’esso rinnovato nei contenuti rispetto alla scorsa estate. Lo trovo terribilmente heavy e duro, specie quando si fonde con tastiere, basso e batteria. Certo che Craig non dimostra affatto di essere infortunato: infatti un comunicato ufficiale del Management, diffuso un paio di giorni fa, aveva precisato che il chitarrista aveva subito un infortunio al braccio, occorsogli durante il Tour in Russia e, pertanto, questo sarebbe l’ultimo concerto per il sofferente Craig, in attesa di essere sostituito da Doug Aldrich.
Al termine del “guitar solo” si riprende il tema di HOLY DIVER, per qualche battuta che fa da trait-d’union con la maestosa GATES OF BABYLON, dedicata da Ronnie al grande Cozy Powell. Per un irriducibile fan dei Rainbow come il sottoscritto, l’ascolto di Gates of Babylon significa godimento allo stato puro: l’esecuzione è da premio Oscar, grazie alle sapienti intelaiature di basso e tastiere che evocano immagini epiche, dalle sfumature vagamente orientaleggianti, retaggio di un passato indimenticabile. Ronnie è il testimone immortale di questa era gloriosa, cantore instancabile di opere e poemi purtroppo irripetibili. Quanta fierezza c’è in quello sguardo, quanto orgoglio e quanta energia in quegli occhi… The eyes! Gli anni passano, ma Lui rimane sempre, incrollabile e coerente; e con la sua professionalità e la sua passione rappresenta il migliore esempio per tutti. Questo è probabilmente uno dei motivi per cui il Personaggio in questione gode di una stima e di un rispetto senza confini e senza eguali al mondo.
L’intro di HEAVEN AND HELL mi distoglie dai miei pensieri: sono pronto ad un nuovo gratificante tuffo nel passato. Il coro è coinvolgente e totale, comandato da un dinamico Ronnie che spazia da un lato all’altro del palco come un direttore d’orchestra. La dimensione spazio temporale si annulla, specie nel momento in cui Dio pronuncia la formula magica: “There’s a big black shape…”: a quel punto, nel buio più profondo che evoca atmosfere infernali e sulfuree, una luce illumina di rosso fuoco la figura di Ronnie che, con una smorfia malvagia e le corna spianate, scatena una scarica di pelle d’oca nei confronti di tutti i presenti. “But first you gotta burn, burn, burn, burn in fire!” L’ambientazione audio-visiva è tale da farci sentire come tanti dannati avvolti dalle fiamme, sprofondati nel regno delle tenebre. La band riattacca con rabbia e grinta, trasmettendo l’ennesimo scossone con il brusco cambio di ritmo, mentre Ronnie canta: “World is full of Kings and Queens who blind your eyes and steal your dreams, it’s Heaven and Hell…”

Non so, sinceramente, a quali termini ricorrere per dare un’idea del pathos che aleggia nell’aria. Siamo tutti in fase di headbanging generale, fino al termine di quest’altra pietra miliare della storia del Rock. I cinque musicisti si abbracciano e si inchinano davanti ad una platea che, ormai, è assolutamente incontenibile. “Dio, Dio, Dio, Dio…” le invocazioni non si fermano neppure dopo qualche minuto dalla sparizione dei cinque nel backstage. Al loro ritorno echeggia un boato: si riparte con THE MAN ON THE SILVER MOUNTAIN, suonata in maniera tosta, non veloce ma, piuttosto, pesante e ben scandita, in puro stile hard and heavy, al punto che si ha quasi la sensazione di gustarsela più pienamente. “Come and make me holy again…”: è come salire su un tappeto magico, guidato da un pilota d’eccezione, che ci conduce su e giù attraverso il cielo, facendoci provare indescrivibili emozioni. Il pogo nel mezzo della sala ribolle dell’entusiasmo più sfrenato: fra le teste intravedo il mio compagno di viaggio Marek, sballottato come un relitto in mezzo alle onde di un oceano infuriato! Pare proprio l’ambientazione ideale per la successiva LONG LIVE ROCK AND ROLL, l’inno degli inni, mirabile pagina scritta con inchiostro indelebile nell’eterna enciclopedia del Rock. E questa è la vera magia del Rock: trovarsi tutti insieme a cantare e saltare, in un qualsiasi angolo sperduto del mondo, animati dalla stessa passione, accomunati da brividi e pelle d’oca e da scariche di pura adrenalina nelle vene… “Like a sound that’s everywhere, I can hear it screaming through the air…”. Il rito si rinnova ancora una volta, mentre cantiamo ed infine inneggiamo ai nostri eroi.
Per fortuna non è finita: dopo qualche minuto di ulteriori invocazioni, la band ritorna accolta da un assordante benvenuto e, a proposito di “Welcome”, il mistico frontman raccoglie e mostra alla folla in delirio un banner biancorosso (i colori nazionali) che gli era stato lanciato, recante la scritta “Benvenuto in Polonia”!

Gli occhi di Dio sono penetranti come lame d’acciaio mentre preannuncia il prossimo inno: WE ROCK! Si torna a cantare ed a rivivere i fasti del passato, con questa canzone sparata a velocità supersonica, bella “piena” nella sua granitica compattezza di suoni. Credo che, a questo punto, la mia schiena sia da rottamare, ma non c’è tempo: con THE LAST IN LINE si torna a bordo del tappeto magico di Ronnie, pronti per nuove impennate mozzafiato, ma lasciandosi anche cullare da rime di profonda poesia: “We’re a ship without storm, the cold without the warm…” La dolce melodia mi distoglie dal dolore alla schiena ed, anzi, prolunga il piacere di un concerto che resterà impresso nella mente, incastonato come un altro splendido diamante nella bacheca dei miei ricordi più belli. “You’re the last in… You’re the last in… You’re the last in…”. Pare che Dio, con le sue tipiche movenze, si rivolga a ciascuno dei presenti con il suo sguardo magnetico ed il suo indice puntato, al termine di questa canzone, per scaturire poi nella finale: “Last in line!” pronunciata con grinta e potenza inalterate rispetto all’inizio dello show. La chiusura strumentale, in crescendo ed all’unisono, è rossiniana ed esplosiva, con gli inconfondibili vocalizzi di Ronnie che accompagnano la band andando a prendere note proibite ai comuni mortali: fantastico!
Il concerto è proprio finito: lentamente la sala si svuota e sul pavimento rimane uno strato scricchiolante di bicchieri e bottiglie di plastica; il mio stomaco sta ancora palpitando per l’eccellente performance alla quale abbiamo appena assistito e dentro di me so che questo indescrivibile stato di “benessere dello spirito” mi accompagnerà per le ore a venire. Prima di addormentarmi risuoneranno nelle mie orecchie le note di stasera e rivivrò i momenti più significativi, facendo scorrere nella mente le immagini più intense, molte delle quali caratterizzate dalla personalissima gestualità di Ronnie nella sua tipica fase interpretativa: il braccio sinistro col pugno alzato durante un acuto, il fatidico gesto delle corna (anche nella versione “double evil eye”), il modo di far girare l’asta del microfono, i connotati del suo volto che assumono espressioni così differenti fra loro a seconda delle situazioni (il sopracciglio destro inarcato, l’angolo della bocca che disegna un sorriso compiaciuto o il corrugarsi della fronte in un’espressione sinistra), e poi le mosse che si abbinano a certi passaggi musicali, con le mani che accarezzano dolcemente l’aria durante una melodia o il pugno che si abbatte sul cuore negli episodi più ruvidi…

Il concerto è appena terminato e sto già pensando al prossimo! Con la mente mi vedo già in mezzo alla bolgia dell’Astoria di Londra, fra tre settimane. Sono proprio inguaribile! Per un istante il pensiero corre alla mia mamma lontana, che – innocente creatura – è convinta che io mi trovi a Bologna per lavoro: infatti prima di partire le avevo detto: “Vado in Polonia”, ma lei aveva capito “Bologna” e perciò, malignamente, ho lasciato in piedi l’equivoco, evitando così le solite discussioni sulla mia maturità che tarda ad arrivare, ecc… All in the name of Rock, naturalmente!
Per fortuna ho la possibilità di intrattenermi con i protagonisti dello show, i quali risultano alquanto provati a causa della stanchezza per il viaggio da Minsk (data del precedente concerto). Simon apprezza i miei sinceri complimenti per il suo “drum solo”; Scott mi obbliga a brindare con lui, porgendomi un calice di vino rosso; Craig sembra più stanco che sofferente, ma non vede l’ora di riabbracciare il suo bimbo al ritorno a casa; Rudy mi dice di pazientare per l’acquisto del suo libro (“Off the rails – My adventures in the Land of Ozz”), in quanto non è ancora stato pubblicato; Ronnie, infine, non nasconde il suo stupore per la mia presenza in Polonia e, nonostante la sua stanchezza, si dichiara disponibile a conoscere i miei amici (purtroppo assenti, a causa di un’influenza del loro secondogenito: rimpiangeranno a lungo questa chance). Apprendo poi di avere qualcosa in comune con la più grande Rockstar di tutti i tempi: il mal di schiena! Nonostante questo fastidio, Ronnie – con la sua consueta gentilezza – accetta di incontrare un gruppetto di fans locali, tra i quali ci sono le due “indigene” Ursula e Agnes, rappresentanti del Fanclub, che riescono finalmente a realizzare il loro sogno ed a consegnare i regali ai membri della band: sono veramente contento per loro! Ma giunge presto il momento di salutarci: il caldo abbraccio di Ronnie è il premio più gradito per la mia avventura in terra polacca. Ci diamo appuntamento alla prossima occasione… ‘cause we got Rock and Roll, Rock and Roll; take you anywhere

Marcello Catozzi