Report The Darkness – Roma 21/07/2004

Di Redazione - 23 Luglio 2004 - 10:29
Report The Darkness – Roma 21/07/2004

Roma, 21/07/2004 – Stadio Centrale del Tennis

Clima ideale al Centrale del Tennis del Foro Italico per un concerto dei The Darkness: l’energia e la freschezza della musica del combo inglese sta riportando in auge lo splendore del glam dei bei tempi, e mentre mi aggiro tra i presenti riesco ad ammirare divertito qualche esempio di neo glamster conciato/a all’ultima moda, quasi a rasentare il più ridicolo kitch.

In realtà i veri fenomeni (non da baraccone, per intenderci) sono Justin Hawkins e compari, che appena mettono piede sul palco danno vita a una serie di gag esilaranti. Inizialmente vestito con una tutina nera-trasparente secondo un’abitudine ormai assodata, Justin – che si cambierà d’abito due volte nel corso della serata – si presenta con i suoi gorgheggi fatti di “r” e falsetti, leggendo a più riprese frasi in italiano da un foglio preparato, ammiccando, provocando e giocando col pubblico.

Gli oltre duemila presenti sembrano apprezzare le uscite goliardiche di Justin, e ricambiano sostenendo il ritmo dei brani con gli applausi: già, perché se non si fosse capito non si tratta di uno spettacolo di varietà, ma di un concerto rock in piena regola. Fin dall’intro “Bareback”, una fanfara di cornamuse inclusa nel terzo singolo della band (“Growing On Me”), seguita da un cadenzato rifferama, i fan si sbracciano e urlano all’insegna dei loro beniamini, ed iniziano un moderato lancio di oggetti sul palco che accompagnerà i The Darkness fino all’uscita di scena. Non pensate ad un bombardamento volto a dimostrare disappunto: si tratta più che altro di “omaggi” che il leader si affretta sempre a raccogliere, a volte, con grande simpatia, interrompendo addirittura la musica. CD, striscioni, reggiseni, fogli di carta con chissà che dediche, cappelli, persino dei calzini (ehmm) sono arrivati sul palco, accolti ora con gioia, ora con smorfie di disgusto da Justin.

Lo spettacolo musicale non è da meno rispetto a quello cabarettisco. Il sound dell’impianto è potente e cristallino al tempo stesso, ideale per un concerto glam/rock che non avrebbe sfigurato negli anni d’oro del genere. “Black Shuck”, “Growing On Me”, “Get Your Hands Off My Woman”, “I Believe In A Thing Called Love”, “Love Is Only A Feeling”, “Love On The Rocks With No Ice”, “Givin’ Up”, “Stuck In A Rut” e “Friday Night”, tratti dal primo e unico album della band, “Permission To Land”, dal quale rimane fuori scaletta solo la (ahime) bellissima traccia conclusiva “Holding My Own”, sono già tutti cavalli di battaglia, e coinvolgono senza via di scampo con la loro carica adrenalinica.

Justin è l’unico e incontrastato padrone della scena, ogni suo cenno viene sottolineato da centinaia di grida, mentre ben poco spazio è riservato al resto della band. L’unico che tenta maldestramente di ritagliarsi un briciolo di visibilità è il baffuto bassista, che per movenze, abbigliamento e acconciatura è ancora più “old-fashioned” di Justin, ricordando un misto di Village People, Boney M e Earth Wind & Fire. Davvero patetico.

Tra una provocazione e l’altra si dipana una scaletta intensa che lascia l’amaro in bocca solo per la sua brevità (i pezzi quelli sono!) e forse per la mancanza di qualche cover di livello (ho sentito che a Torino i nostri proprio il giorno precedente alla data di Roma hanno suonato “Street Spirit” dei Radiohead, mentre in una delle date spagnole i fan si sono goduti “Tie Your Mother Down” dei Queen), ma tant’è che a tenere banco non sia stata tanto la musica, quanto lo spettacolo, senza cadute di tono e divagazioni dal glamour imperante, con episodi d’effetto quali il lancio di carta colorata durante i ritornelli e di striscette argentate per il pirotecnico finale.

Se li vedrete una seconda volta, probabilmente non li troverete altrettanto irresistibili – chi va a vedere due volte lo stesso spettacolo di cabaret? – ma se non li avete mai visti, è il caso che ci facciate su un pensierino, soprattutto se siete dei nostalgici amanti del glam degli eighties.

Mauro Gelsomini