Report Wacken Open Air 2004

Di Daniele Balestrieri - 8 Novembre 2004 - 0:05
Report Wacken Open Air 2004

Il Wacken Open Air spegne 15 candeline e festeggia quindici lunghi anni
caratterizzati dall’amore per il metal e da un successo sempre meritatamente
crescente. Con dedizione e saggezza, anno dopo anno, l’organizzazione
del W:O:A ha saputo portare quella che era poco di più di una festa
della birra, come tante ce ne sono qui da noi, ad essere il festival metal
numero uno del mondo. Edizione dopo edizione Wacken si migliorata, è
cresciuta, e oggi è senza dubbio il festival numero uno nella graduatoria
di gradimento delle metalheads europee e non.

Quali sono gli ingredienti segreti per questo successo? Niente di così
misterioso. Senza dubbio, come detto, tanta passione e tanta voglia di
fare, il coraggio di mettersi in discussione, ma sopratutto la capacità
di trasformare un pascolo del nord della Germania nel luogo ideale. Una
materializzazione della utopica Città del Metallo, dove per tre
giorni buona birra scorre a fiumi, CD e magliette vengono venduti a prezzi
decenti e la musica non ti abbandona mai. Questi pregi sono però
tutto contorno, sono ciò che rende l’atmosfera ideale per seguire
lo spettacolo principale: una miriade di gruppi divisi tra due stage principali
e due secondari, oltre 50 bands maggiori e minori, estratte dalle più
lontane sacche di tutto il panorama metal. Un festival che a distanza
di 10 minuti può permettersi di passare dai Saxon ai Satyricon,
da Doro agli Amon Amarth. Questo è Wacken.

Il bill di questo quindicesimo compleanno è ottimo, forse non
trascendentale, ma sicuramente interessante e avvincente per la grande
qualità delle band che nell’arco dei tre giorni si sono alternate
sui palchi principali. Diverse anche le chicche del Party Stage e del
W.e.t. Stage: Eläkeläiset, The Quireboys, Hobbs
Angel Of Death
, Gun Barrel, Schandmaul senza dimenticare
lo show di Onkel Tom con la banda dei pompieri… tutti gruppi che,
ahimè, per la maggiorparte ci siamo persi causa impegni con i nomi
maggiori.
L’edizione 2004 è stata sicuramente caratterizzata dagli ospiti,
attesi o meno. Si parte dalla commovente presenza di Nocturno Culto con
i Satyricon, qualcosa che chi non ha avuto il piacere di vivere difficilmente
potrà riuscire a immaginare. Uno show di una intensità grandissima
(dedicato allo scomparso Quorthon) con quella Mother North finale che,
lasciatemelo dire, è stata probabilmente l’apice di questo Wacken
2004. Ospiti a sorpresa anche per gli headliners del True Metal Stage.
Venerdì sera con la suggestiva reunion dei Warlock e Doro, accompagnata
dall’orchestra e da Blaze Baley; domenica con i Saxon che hanno accolto
sul palco vecchi membri della band, Jorg Michael e Chris Caffery. Ovazioni
anche nel pomeriggio, quando Kai Hansen ha partecipato al finale dello
show degli Helloween e grandissimo anche l’epilogo della performance dei
Destruction, che con Abbath (ex-Immortal), Peter Tatgren (Hypocrisy) e
Sabina Classen (Holy Moses) che hanno suggellato uno show devastante e
spettacolare, tra i migliori della tre giorni. C’è stato spazio
anche per Joey De Maio, presentatosi coi suoi Manowar prima dell’encore
di Dio. De Maio è stato però poco apprezzato dal pubblico
tanto che al suo “Qual è il mio nome?” nessuno o quasi
gli ha risposto.

GIOVEDI’:
TRUE METAL STAGE:

La serata di apertura è tutta all’insegna dell’hard rock, con un
binomio importante come Zodiac Mindwarp e Motorhead a cui è affidato
il compito di aprire la strada ai tanto osannati/detestati Bohse Onkelz.
Entrambe le band sono protagoniste di un buono show, accattivanti i Zodiac
Mindwarp
, classici come sempre i Motorhead. I primi sopperiscono ad
una voce di Mark Manning non in grande serata con una attitudine Rock’n’Roll
davvero lodevole. Grazie a una selezione di pezzi ottima, che spazia dall’energica
opener High Priest of Love fino alla cover di Alice Cooper, Feed My Frankenstein,
i Zodiac Minwarp tengono alto il livello dello show risultando coinvolgenti
e divertenti.
Il testimone passa poi ai Motorhead, che, anche se non sono nella
loro migliore serata, non hanno assolutamente intenzione di cambiare una
formula magica che funziona ormai da tanti anni. Apertura affidata a We’re
Motorhead, chiusura tutta per l’accoppiata Ace Of Spades – Overkill, e
classici alla No Class, Sacrifice, Killed By Death, Dr. Rock e compagnia
sparati uno dopo l’altro durante tutta l’ora abbondante di un concerto
che ha spazio anche per la cover di God Save the Queen dei Sex Pistols.
Tra gli altri, ancora una volta in spicco la splendida performance di
Mikkey Dee dietro le pelli. Solita ricetta, solito piatto: divertimento
assicurato.
Quando ormai sono passate le 21 di sera salgono sul palco i Bohse Onkelz,
band per lo più sconosciuta ma che gode in terre teutoniche di
un vero e proprio culto. Causa passati coinvolgimenti della formazione
tedesca con le tematiche naziste, Wacken è divisa tra chi li boicotta
e chi invece affolla l’area concerti per godersi il loro show. Centinaia
di persone vanno in visibilio per una proposta musicale piuttosto scarna,
fatta, se si esclude qualche singolo episodio interessante, di uno pseud
hard-rock dalle venature punk sgraziato e piuttosto noioso. Il pubblico
però pare gradirli e così gli Zii Cattivi propongono un
set da 2 ore, con 25 brani e un encore da altri 5 chiuso dai due cavalli
di battaglia Mexico e Erinnerungen.


Motorhead

Zodiac Mindwarp

BLACK METAL STAGE:

Sì, non è stata particolarmente malvagia l’apertura.
Peccato che il Black Metal Stage fosse vuoto giovedì – le uniche
tre band hanno suonato sull’altro palco. Nonostante tutto, anche noi cultori
dell’oscuro non abbiamo potuto fare a meno di apprezzare la performance
micidiale del buon vecchio Lemmy, che ha tenuto il pubblico per la collottola
grazie alla sua voce sempre più confusa ma dal timbro inconfondibile.
Vorrei spendere due parole, comunque, sulla commovente presenza dei Böhse
Onkelz
alle 21:15: l’enorme band tedesca ha sconquassato l’intero
True Metal Stage grazie a una prestazione da capogiro, inanellando tutta
una serie di cavalli di battaglia tra cui la rocambolesca “Könige
Für Einen Tag”, o la sempreverde “Mexico” e la commovente
“Erinnerungen”. Mi sono ritrovato rapito da pietre miliari della
loro produzione come “Danke für Nichts” e “Gehasst,
verdammt, vergöttert” che sono diventati praticamente i due
tormentoni dell’intero Wacken. Gli Onkelz sono stati in grado di scuotere
l’intera audience, e a riuscire nell’impresa di separare i tedeschi dal
resto degli avventori, essendo un fenomeno dal seguito spaventoso in germania,
e irrisorio nel resto del mondo. Eppure anche da lontano sono sicuro che
si sentiva la terra tremare ai cori appassionati del pubblico, specie
alla luce di uno degli ultimi concerti della loro vita, visto il prematuro
scioglimento della Band con il loro ultimo “Adios”. Davvero
un’ottima esperienza, che mi ha caricato alla luce della cavalcata dei
giorni successivi.

VENERDI’
TRUE METAL STAGE:

Saltati causa protocollo `recupero-postumi` Paragon e Weinhold,
il mio True Metal Stage del venerdì comincia con i `soliti` Brainstorm.
Dico soliti perché l’esibizione live della band procede sui binari
consueti, con il power metal onesto e con Andy B. Franck che continua
a mostrarsi front-man dotato di classe e simpatia. Certamente piacevoli,
peccato che però alla lunga la loro proposta musicale possa risultare
ripetitiva.

Vecchia e amata istituzione del metal tedesco ed europeo sono i Grave
Digger
. Il becchino è nella solita splendida forma e, sin dalle
prime battute dello show, Chris e compagni fanno intuire di non essere
a Wacken per fare presenza o promuovere spudoratamente il nuovo album.
Spazio ai classici, pescati qua e là per tutta la discografia dalla
reunion in poi, con la sola eccezione di The Reaper. Assenza ahimè
pesante che, parlando poi con Stefan Arnold, ho scoperto essere dovuta
a problemi di tempo “L’assenza è stata dovuta a un taglio.
Dovevamo suonare anche The Reaper, ma purtoppo l’orologio sul palco segnava
pochi minuti rimasti a nostra disposizione e così siamo stati costretti
a eliminarla dalla scaletta”. Ottima la prova vocale di Chris Boltendahl
e ottima la prova dei musicisti, con Manni Schmidt ormai perfettamente
rodato e trascinante. Una sicurezza.
Setlist: The Ring + Rheingold, The Grave Dancer, The Dark Of The Sun,
Excalibur, The Battle Of Bannockburn, Son Of Evil, Morgane Le Fay, Knights
Of The Cross, The Round Table, Scotland United, The Grave Digger, Rebellion
(The Clans Are Marching), Valhalla, Heavy Metal Breakdown

Quando il TrueMetalStage è ormai quasi avvolto nelle tenebre,
è la classe lucente e cristallina di un signore chiamato Ronnie
James Dio
(classe 1940!) a illuminare la notte all’insegna di capolavori
e classici dell’hard’n’heavy. Brividi lungo la schiena per pezzi che hanno
esaltato e cresciuto generazioni di rockers, pietre miliari della fattura
di Holy Diver, Rainbow In The Dark o Don’t Talk To Strangers. Voce sublime,
squillante, senza età, che si destreggia tra la discografia solista
del folletto e quella dei leggendari Rainbow. Letteralmente ipnotizzati
da pezzi come Rock’n’Roll Children e Stargazer si arriva fino alla Heaven
And Hell targata Black Sabbath. Nel finale di un concerto di classe come
pochi si possono permettere, giunge Joey De Maio, seguito a distanza dal
resto della sua band, per consegnare a Dio un premio speciale dell’organizzazione.
Il padre padrone dei Manowar tenta di caricare il pubblico a modo suo,
ma Wacken non ne vuole sapere ed ha voce e cuore solo per il piccolo grande
singer. Anche il finale di sermone al grido di “Fuck in the name
of Dio” non ha effetto su di un’area concerti completamente immersa
nell’incantesimo. La chiusura affidata ad una immortale We Rock è
l’ultima detonazione di migliaia di padri e figli che hanno abbracciato
nuovamente uno dei sommi signori del rock’n’roll.

Appena concluso il capolavoro di Ronnie James Dio l’attenzione si sposta
sul Black Stage, dove protagonisti di un concerto splendido ci sono i
Destruction. Il trittico teutonico è in grandissima forma,
l’apparato luci-fuochi-scenografia è perfetto, la carneficina può
cominciare. La leggenda del thrash tedesco propone in maniera impeccabile
e grintosa una sorta di best-of della propria carriera. Dal consueto inizio
con Curse The Gods c’è spazio solo per thrash metal di altissima
scuola: Nailed To The Cross, Bestial Invasion, Thrash Til Death, Mad Butcher,
Life Without Sense, fino alle nuove ma altrettanto devastanti Metal Discharge
e The Ravenous Beast. Il primo set viene chiuso da Desecretors (Of The
New Age), il trio se ne va… e al ritorno diventa un sestetto grazie
all’aggiunta di Peter Tätgren alla ritmica, Abbath alla voce e Sabina
Classen all’headbanging selvaggio. Finale spettacolare per una prestazione
devastante: grandosi Destruction.
Setlist: Curse The Gods, Mad Butcher, Nailed To The Cross, Antichrist,
Eternal Ban, The, Ravenous Beast, Life Without Sense, The Butcher Strikes
Back, Metal Discharge, Thrash Til’ Death, Bestial Invasion, Desecrators
(Of The New Age), Total Desaster

Si rincontrano le strade di due nomi fondamentali della scena heavy europea:
Doro Pesch e Warlock. L’eroina del metallo torna ad esibirsi
con i compagni dei tempi che furono (ovvero il 1986), il supporto di una
orchestra e un guest chiamato Blaze Baley. Setlist farcita di cover come
Fear Of The Dark, A Touch Of Evil e versioni poco convincenti di The Trooper
e Breaking the Law. Sarà che preferisco la chitarra di Downing
e Murray ai violini della Metal Classic Night Orchestra, sarà che
a suonare le proprie canzoni si è tutti bravi e sarà che
da una reunion del genere mi aspetto pezzi di paternità Warlock…
che gli apici dello show sono proprio i classici della band tedesca, con
un’attesissima e acclamatissima All We Are padrona assoluta dello show.
Di grande impatto scenografia e luci… ma del ruggente metallo che
la band forgiava negli anni ’80 se ne è intravisto soltanto qualche
squarcio.


Grave Digger


Doro

BLACK METAL STAGE:

Di buon mattino, dopo qualche birra e un paio di wurstel (classica dieta
di Wacken), aprono le danze gli Orphanage, che in piena forma hanno
tenuto banco con gran carica grazie a vecchie hit come “The Mountains
of Darkness”, che sono state in grado di riscaldare gli animi fino
all’arrivo degli ottimi Cathedral, che hanno spopolato grazie a
una presenza scenica ottima e a una selezione di canzoni che ha prediletto
gli ultimi lavori, trasformando le paure di un concerto in chiave doom
nella carica di un concerto martellante, di gran qualità, con dei
suoni particolarmente limpidi e un ottimo coinvolgimento da parte del
pubblico. Peccato per il caldo asfissiante, che non ha concesso a coloro
che si trovavano troppo indietro di apprezzare quei colpi di genio che
hanno portato la band a tornare sui propri passi fino a scavare in Forest
of Equilibrium, cosa che ha reso la gente impaziente di sentire altro,
ma gli animi stavano tremando – di lì a poco infatti si sarebbe
esibito quel pazzo di Maniac con l’immortale presenza dei Mayhem.
Tra i Cathedral e i Mayhem si sono esibiti gli Arch Enemy, band che ultimanete
ha perso molto del proprio fervore… purtroppo non ho avuto la possibilità
di guardarmeli perché dovevo essere pronto all’arrivo di Maniac,
e il caldo asfissiante stava seriamente mettendo alla prova la mia “vita”
– ho dovuto cercare un po’ d’ombra.
Già dall’inizio si notava che sarebbe stato uno spettacolo culto:
gli assistenti dei palchi stavano montando su grandi pali delle teste
di maiale insanguinate, e stavano riempiendo di olio i tubi sputafuoco.

Ed eccolo infatti Maniac, in facepainting, torso nudo e capelli sporchi
di vernice bianca (tanto da farlo sembrare un ottantenne, una cosa risibile
specialmente dalle prime file) entrare sul palco, scatenando i boati del
pubblico. Quello dei Mayhem è stato un grande spettacolo: nel suo
classico stile, Maniac si è praticato un taglio abbastanza profondo
su un braccio e ha lasciato che il suo sangue si spargesse sulle mani,
lanciandolo sul pubblico. La performance a dire il vero non è stata
particolarmente notevole – sebbene la lista di canzoni comprendesse uno
splendido “Pure Fucking Armageddon” e una emozionante “Freezing
Moon”, e anche tutta una serie di brani ripresi direttamente dagli
ultimi, discutibili, due album. Notevole è stato il momento del
lancio delle teste di maiale contro il pubblico, e il momento in cui,
invasato, ha lasciato il pugnale a Hellhammer per lanciarsi sulla folla
in delirio. Devo dire che non ha perso né voce né presenza
scenica, sebbene le conclusive “My Death” e “Dark Night
of the Soul” non mi abbiano preso particolarmente. Lo spettacolo
comunque è stato degno delle prime file, un’orgia di Black Metal
storico, sangue, facepainting, sudore e pulviscolo di idranti.
Dopo il massacrante episodio dei Mayhem, il sole iniziava a calare e sul
palco compariva Fenstein, un talento che aveva suonato con un gruppo
di nome “The Rods”, a me purtroppo sconosciuto. La performance
a pelle non è stata malvagia, sebbene questo genere di metal molto
melodico poco si addiceva in quel palco, specialmente dopo i mostri Mayhem
e i mostri che si sarebbero presentati alle 22:30, come un gran film in
seconda serata: il trio della Distruzione!
I Destruction hanno ammassato una gran folla, come si confà all’ennesimo
gruppo tedesco, e che concerto che hanno tirato fuori. Ottimo sound, i
tre hanno scatenato un pogo da infarto, tanto che era impossibile trascinarsi
fino alle prime file. Uno show da far impallidire anche quello del giorno
seguente dei Cannibal Corpse, con hit provenienti da tutta la loro carriera.
In fondo allo show hanno anche presentato delle guest star degli Holy
Moses, finché non è calato il sipario in attesa dell’ultimo
show della tarda notte, quello degli Amon Amarth.
Preparato come non mai all’armata vichinga Svedese, in cotta di maglia
da spolvero ci siamo presentati in prima fila, pronti a urlare a Hegg
e soci. La preoccupazione della band di suonare a un’ora infausta come
le due di notte non era del tutto ingiustificata: la gente era a pezzi,
e a mucchi dormivano dovunque nei pressi dello stage. Per fortuna la folla
si è poi radunata in grande stile, per uno dei concerti più
grande di una band che da solista recupera a malapena un centinaio di
persone. L’emozione per la mia band preferita è salita alle stelle,
ma ahimè, lo spettacolo si è rivelato davvero indecente.
All’attacco di Versus the World ho assistito insieme a migliaia di persone
stanche e ubriache alla performance di Johan Hegg e soci, che già
nei primi minuti si sono rivelati sotto ogni standard: immediatamente
ci siamo resi conto che qualcosa non andava: i suoni erano confusi, impastati,
la chitarra ritmica invisibile e la voce di Johan si mischiava agli strumenti:
insomma, una delusione che mi ha colpito come poche cose, unita anche
a una scaletta del tutto trascurabile, che ha confermato le mie paure:
i loro vecchi cavalli di battaglia stanno sparendo dai loro concerti.
Insopportabile l’assenza di Without Fear e di Annihilation of Hammerfest,
in favore di un Avenger e un Versus the World preponderanti. Tra i cinque
concerti degli Amon Amarth ai quali ho assistito, questo è stato
senza dubbio il peggiore: a malapena riuscivo a distinguere le canzoni
tra di loro, e la gente sembrava più intenta a vociare a caso e
a pressarsi sulle transenne che non a godersi lo spettacolo.
Triste e contrito sono scivolato via al termine della performance, pronto
a un sabato di passione.
Notevole, durante lo show dei Destruction, la presenza dei finlandesi
Eläkeläiset al party stage: una full-band famosissima
in Germania responsabile di cover humppah delle canzoni più famose
della storia della musica: i palchi erano ben divisi, ma la folla si divideva
tra pura follia e metallo turbinoso, nella stessa ora dello stesso giorno.
A volte, a Wacken servirebbe proprio il dono dell’ubiquità.


Destruction

Mayhem

Cathedral

Amon Amarth

SABATO
TRUE METAL STAGE

Sono soltanto le 12:35 di sabato mattina quando i Death Angel decidono
di lasciare un segno in questo Wacken 2004. Nonostante i suoni non perfetti,
Mark Osegueda e soci sono compatti, aggressivi e violenti come una band
thrash deve assolutamente essere. Il gruppo asiatico offre un spettacolo
d’insieme esaltante, proponendo molti classici targati ’80 come Voracious
Souls e Bored, procedendo con Thrown To The Wolves e Thicker Than Blood
pescate direttamente dal loro grande ritorno The Art Of Dying, e completando
l’opera con l’immancabile devastante Kill As One. Che per questi filippini
il tempo si sia fermato per quattordici lunghi anni?

Da chi è risorto a nuova vita, a chi il thrash (almeno su studio
album) pare averlo dimenticato da un pezzo. Quando gli Anthrax,
o meglio quel che ne rimane, salgono sul palco, l’abisso con i Death Angel,
a livello di immagine, presenza e produzione recente è enorme.
Fortuna però che la formazione americana non ha voglia di passare
per la pecora nera della giornata, e così comincia a estrarre dal
cilindro i pezzi che al tempo scrissero pagine della storia del thrash,
risparmiandoci fortunatamente una full immersion di We’ve Come For You
All. Sin dalle prime battute, con l’apertura affidata a N.F.L., uno dopo
l’altro sfilano sul palco di Wacken, portati a nuova vita da una formazione
che pare in giornata di grazia, pallottole del calibro di Indians, Safe
Home, Caught In A Web, Got The Time… e scusate se è poco!

Ennesimo esame in sede live per i Nevermore. Con un suono nettamente
migliore rispetto al Gods Of Metal, Warrel Dane e soci si presentano con
una scaletta ottimale per una esibizione in un festival come Wacken. La
title-track del nuovo album, Enemies Of Reality, apre le danze e viene
seguita da pezzi più o meno immancabili come Next In Line o Sounds
Of Silence. La parte strumentale è ben eseguita, con suoni potenti
e precisi. Quello che invece spesso finisce con lo stonare fuori dal coro
è la voce di Warrel Dane, che non riesce a muoversi come dovrebbe.

Ne è passata tanta di acqua sotto il ponte degli Helloween,
una band che nel corso degli anni il pubblico ha amato, abbandonato, e
a volte detestato. Di quella formazione che scosse il mondo del metal
con due gioielli del power spensierato e festaiolo è rimasto ben
poco, quasi nulla. Quello che invece è rimasto di quegli anni lontani
sono i pezzi che, con un po’ coraggio, ma sopratutto tanta furbizia, gli
Helloween di oggi utilizzano come scheletro per il loro show di Wacken,
affiancando a questi vecchi classici materiale più o meno recente.
Partenza dedicata alle radici con Starlight seguita da Keeper Of The Seven
Keys e Eagle Fly Free: vecchie glorie inarrivabili per Andy Deris, il
quale non può fare altro che limitare i danni. Sono però
questi i pezzi che tutti vogliono sentire, e il pubblico è fortunatamente
pronto a perdonare le linee vocali notevolmente facilitate che Deris percorre.
Molto bene il singer fa invece nei pezzi della sua era come Hey Lord!,
If I Could Fly e Power. Apprezzatissima e spettacolare Dr. Stein, meno
la nuova Sun For The World, che ha il compito di ricordare a tutti l’esistenza
di Rabbit Don’t Come Easy e di chiudere il primo set dello show delle
zucche. La sorpresa è nell’aria, quasi già annunciata, ma
quando la band di Amburgo invita sul palco un vecchio amico, e Kai Hansen
si presenta con la sua Esp rossa, Wacken esplode e si concede un tuffo
nei bei tempi che furono con il duo finale formato da How Many Tears e
Future World.
Promozione piena per quanto riguarda lo show, ma siamo alle solite: i
pezzi ci sono, la formazione no.
Setlist: Starlight, Keeper Of The Seven Keys, Eagle Fly Free, Hey Lord!,
If I Could Fly, Power, Dr Stein, How Many Tears, Future World.

Saxon. Basta pronunciare distrattamente questo nome per tirare
in causa la storia del fottuto heavy metal. Quest’anno, questo nome così
importante, ha l’onore e l’onere di essere l’headliner di Wacken. Gli
ingredienti per una serata da ricordare ci sono tutti: una band la cui
resa live da qualche anno è tornata agli antichi fasti, un’area
concerti che li attende con impazienza e due ore piene di tempo a disposizione.
I Saxon rispondono ottimamente, proponendo estratti da tutta la loro carriera,
recente e lontana. Dopo l’apertura con la trascinante Heavy Metal Thunder
c’è posto per Dogs Of War, Backs To The Wall, We Are Travellers
In Time, Dragon’s Liar, Rock Is Our Life, Solid Ball Of Rock. A questo
punto la carrellata finisce ed è tempo di soli e puri capolavori
dell’heavy metal. Nell’ordine i Saxon gettano in pasto al pubblico di
Wacken: Motorcycle Man, Strong Arm Of The Law, Princess Of The Night,
747 (Strangers In The Night), And The Bands Played On e Crusader con il
futuro compagno di viaggio Jorg Michael. Finita qui? Assolutamente no.
Dopo una breve pausa Biff e soci ritornano con due title-track che da
20 lunghi anni fanno scapocciare generazioni di metalheads: Wheel of Steel
e Denim & Leather, quest’ultima farcita dalla presenza di Chris Caffery.
Un concerto spettacolare, che ha presentato però due momenti deboli,
ovvero una prima parte di show troppo poco adrenalinica, lontana da una
avvincente seconda parte, e una conclusiva Denim & Leather trascinata
fin troppo (sui 15 minuti).


Anthrax

Death Angel

Helloween

Saxon

BLACK METAL STAGE:

Altra alba, altro sole spietato sulla piana polverosa di Wacken. Di buon’ora,
intorno alle nove, ancora sbronzi dalla sera prima, ci avviciniamo all’Happy
Stage dove Onkel Tom, frontman dei Sodom, si appronterà a
due ore di follia birraiola con la sua omonima band. In piedi su un tavolo,
birra in mano, dalle 10 a mezzogiorno abbiamo goduto lo show con il quale
il buon Angelripper ha trascinato la folla mattutina. Es Gibt Kein Bier
auf Hawaii, In Munchen Steht ein Hobrauhaus, Trink Trink Brüderlein

trink, .Schnaps das war sein letztes Wort, Es soll keiner sagen, wer trinkt…,
Hier Kommt Onkel Tom, c’era solo l’imbarazzo della scelta – un concerto
che avrei preferito durasse 10 ore, una cavalcata di follia che ha tralasciato
una Bier und Apfelkorn chiamata a gran voce dal pubblico in fondo al mucchio,
e anche la mia personale preferita Altbierslied, trascurata in favore di
un gruppo di quattro persone che hanno insegnato all’intero pubblico come
ballare la storia di un povero uccellino del lago Titicaca.

All’ultima nota di Tom, grande corsa di filata verso il palco Black: dopo
qualche secondo avrebbero iniziato la loro fantasmagorica cavalcata i grandi
Bal-Sagoth, ed ecco il frontman presentarsi in un clima desertico
vestito di anfibi, jeans neri lunghi, felpa, bomber e cappello nero di lana!
Una prova mostruosa di resistenza, come assolutamente mostruosa si è
rivelata la sua voce: un timbro potente, da perforare le orecchie, uno show
a dir poco eccezionale, una delle prestazioni migliori di tutto Wacken.
Veleggiando tra un’ottima Atlantis Ascendant e una eccezionale “The
splendour of a thousand swords gleaming beneath the blazon of the Hyperborean
empire”, il cui titolo è stato sparato nell’aria a un volume
insostenibile, tutto di un fiato, la band ha fatto valere quel connubio
tra epic catastrofico, black ai limiti del vertiginoso e intere parti parlate.
Grande prestazione di Dan Mullins, il nuovo batterista, presentato a gran
voce, e ottime – nonostante la brevissima performance – “Starfire burning
upon the ice-veiled throne of Ultima Thule” e “Empyreal Lexicon”,
a dimostrazione che ancora hanno tanto da dire, e tanto ci auguriamo sarà
detto nell’album di prossima uscita.
Spossato ma fedele alla causa del Black Metal assisto anche allo show
dei thrashoni svedesi Unleashed, giunti a rimpiazzare gli americani Deicide
(una band che mi è dispiaciuto non vedere). Grande show il loro,
particolarmente devastante con una “Death Metal Victory” che
ha mandato il pubblico in delirio. Una nota eccezionale è stata
anche il lancio, tra bacchette e plettri, di un corno da bevuta, dritto
in mezzo al pubblico.
Erano ormai superate le sei ore di concerto, e a stomaco vuoto, con il sole
che picchiava come un fabbro mentre forgia una spada, aspettiamo i Cannibal
Corpse
. Questa band mi doveva una riscossa, dopo lo show tecnicamente
impeccabile del XMas festival di 3 anni fa, nel quale non hanno fatto nulla
per ingraziarsi il pubblico, suonando immobili come i Beatles. Quest’anno
lo show mi ha preso sicuramente di più, grazie anche a un sonoro
particolarmente potente e al “rispolvero” di alcune canzoni non
comuni. Purtroppo però la stanchezza iniziava a farsi sentire, e
purtroppo ho dovuto abbandonare gli Hypocrisy al loro pubblico rumoreggiante,
per recuperare le forze. Da quanto si percepiva nell’area di riposo, ho
potuto sentire un buon concerto.
Ma sì, la sera si stava facendo strada, e innanzi a noi avevamo
una notte che non sarebbe MAI stata dimenticata.
Aprono le battute i Children of Bodom, responsabili di un concerto
a dir poco spaventoso. Lo show mi ha rapito e strattonato, il black/power
finnico di Alexi, che come suo solito camminava a dieci metri dal suolo,
ha devastato il pubblico con la trascinante Hate Crew Deathroll e la sempiterna
Silent Night, Bodom Night che ha avuto il potere di trascinare tutto il
pubblico femminile verso le prime file. Ad alcuni non sono piaciuti, ma
ormai è diventato un classico lo sputare contro i Children of Bodom.
Per quanto detestabile sia l’atteggiamento da rockstar di Laiho, il loro
sound rimane massiccio di album in album, e non mi vergogno di dire che
ci vorrebbero più band come loro – cosa che fortunatamente sta accadendo.
L’anno prossimo vogliamo i Norther!
La luna si alza nel cielo, e suonano le lugubri campane della mezzanotte.
Wacken si prepara ad assistere allo show che verrà “Ricordato
Per Sempre” (c). Salgono sul trono dell’abisso i Satyricon in
gran completo, pronti per lasciare un segno nella storia dei live. La moltitudine
si accalca, il palco inizia ad alitare nubi di fumo gelido, il terreno fradicio
inizia a pulsare: Satyr imbraccia ubriaco il suo microfono, e barcollando
più volte intona l’orrifica “Walk the Path of Sorrow”,
e il pubblico inebetito si lascia trascinare nelle gelide foreste scandinave.
Il sound leggermente sotto la media rende ancor di più tetro l’ambiente,
per uno dei concerti più belli di tutta la mia vita. Il pubblico
si trascina nell’eccellente Night of the Triumphator, fino a brani classici
come Forhekset, Raped Bastard Nation e infine l’immancabile e inimitabile
Hvite Krists Død, al che il pathos era al massimo: tutti sapevamo,
lo sapevamo, che Satyr al termine della canzone avrebbe lanciato il microfono
a Nocturno Culto, che avrebbe sigillato un immortale ritorno dei Darkthrone.
Alla voce del monumentale singer la folla è entrata in visibilio,
tutti i cuori neri sono arrivati in gola, trattenere le lacrime è
stata un’opera ardua – ma eccola l’intro drammatica di Kaatharian Life Code,
seguita da una spaventosa Hordes of Nebulah e da una delle accoppiate più
incredibili della storia del Black: Transylvanian Hunger e Under a Funeral
Moon. La storia scricchiolava sotto i loro piedi e infine, prima di lasciare
nuovamente l’orgia di potenza a Satyr, la commossa dedica a Quorthon ha
innalzato gli animi alle stelle, tra urli angosciati e applausi fragorosi.
Conclude la joint-venture del secolo una Mother North da lacrime, interpretata
con passione e potenza, finché i fischi delle casse non hanno gettato
le tenebre sul Wacken del 2004.
Un concerto indimenticabile, una line-up indimenticabile.


Onkel Tom

Bal-Sagoth

Children of Bodom

Satyricon

Buon compleanno, Wacken.

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini (True Metal Stage)
Daniele ‘Fenrir’ Balestrieri (Black Metal Stage)