Report Wacken Open Air 2006

Di Daniele Balestrieri - 19 Novembre 2006 - 19:52
Report Wacken Open Air 2006

Scusandoci per il ritardo, provocato fondamentalmente da un grave problema familiare di uno dei redattori che ha ritardato i lavori, al quale si sono aggiunti alcuni problemi tecnici, Truemetal finalmente pubblica la spedizione in quel di Wacken 2006: Buona Lettura!

Puntuale come un orologio svizzero, anche quest’anno si è tenuto il festival metal più importante del mondo, in quella cittadina di poche anime che per una settimana circa vede l’assalto incondizionato di decine di migliaia di metallari provenienti da ogni angolo del pianeta: il Wacken Open Air.
Ancora una volta, una nutrita schiera di redattori e utenti di Truemetal ha affrontato il viaggio fino ai confini della Danimarca per vivere un evento che da 16 anni è passato dalla nicchia alla mondanità più esasperata.
Dopo le condizioni atmosferiche tragiche del Wacken Open Air 2005, gli occhi erano innanzitutto rivolti verso il cielo: avrebbe piovuto, magari selvaggiamente come capitò durante gli Obituary? La zona concerti sarebbe stata sommersa di fango nero e viscoso come il catrame? La zona comune sarebbe stata costellata di pozzanghere fangose invalicabili e maleodoranti? La zona campeggio sarebbe stata intrisa di umidità e battuta dal vento? Oppure avremmo assistito a un Wacken in stile 2004, con un sole ustionante, nemmeno una nuvola in cielo, temperature attorno ai 35 gradi e ombra rara come un miraggio?
Beh “Rain or Shine”, così recita il nuovo slogan di Wacken, il divertimento non sarebbe mancato. Ormai la manifestazione teutonica segue dei parametri rigidi e ripetitivi, e anche chi c’è stato una sola volta, riconoscerà un ambiente familiare e un’atmosfera quasi immutata.
Bisogna dire che ormai gli organizzatori sanno bene di avere tra le mani un evento che porta una quantità incredibile di ospiti e di denaro, e non si fanno scrupoli nello sfruttare una simile occasione.
I voli per Lubecca, Amburgo, persino Francoforte e Hannover risultano pieni fin da fine giugno, mentre nelle città circostanti (Itzehoe, Lubecca, Amburgo) orde di taxi e treni speciali sono pronte ad accogliere le migliaia di metallari che desiderano raggiungere il luogo designato, un’occasione insperata per guadagnare in 4 giorni più di quanto probabilmente guadagnerebbero in un mese di brevi spostamenti.

In ogni caso, questo Wacken 2006 è stato caratterizzato da molte piccole novità collaterali, alcune interessanti e alcune sconfortanti. E la prima ha avuto luogo ancor prima dell’inizio dell’evento. La notte del 2 agosto infatti, attorno all’una, (ovvero qualche ora prima dell’inizio del viaggio per la maggior parte dei metallari) il sito di Wacken viene aggiornato con un’enorme scritta “SOLD OUT” lungo il famoso teschio di vacca simbolo della manifestazione.

Quel “SOLD OUT” è bastato a gettare nel panico, a poche ore dalla partenza, coloro i quali avevano intenzione di recuperare un biglietto al Ticket Office di Wacken stesso. Nella pagina inglese di Wacken compariva semplicemente una riga in cui si spiegava che Wacken aveva raggiunto il limite di capienza e che non sarebbero stati emessi altri biglietti.
Da un’organizzazione come quella di Wacken tutto ci si sarebbe aspettati tranne che, qualche ora prima dell’inizio della zona calda della manifestazione, avvertissero con candore innocente che qualcuno rischiava di non poter entrare. In realtà, bastava andare nel sito tedesco per trovare scritto – solamente in tedesco, alla faccia insomma di chi non viene dalla Germania – che nonostante il SOLD OUT nessuno sarebbe rimasto senza concerto, e che si sarebbe trovato un metodo per accogliere anche coloro che erano già in viaggio e che erano sprovvisti di biglietti.
Insomma, infarto scampato sotto braccio, la scena si sposta direttamente a Wacken. Un mare di gente è in fila da alcune ore per scambiare le prevendite, il tutto sotto un cielo plumbeo e minaccioso, e qualche goccia di pioggia qua e là. Il biglietto, per chi lo acquistava senza alcuna prevendita, era salito fino a 150 euro a testa – quasi il doppio della tariffa minima. Per quanto sembrasse eccessivo e un po’ approfittatore, nessun sano di mente potrebbe mai rifiutare di entrare dopo essersi fatto un volo o migliaia di chilometri in macchina, per cui, dolenti, gli ultimi arrivati hanno dovuto inaspettatamente tirar via con la forca più di quanto preventivato.
Novità succulenta di questo Wacken è stata anche la Full:Metal:Bag. Per una manciata di euro e una fila lunghissima, lo staff di Wacken ha fornito una sacca griffata Wacken nella quale si trovava una torcia, un cuscino, un sacco per l’immondizia e altre piccole amenità – anch’esse griffate – per facilitare il soggiorno alle migliaia di campeggiatori.
Tornando al pre-Wacken, come al solito i pochi supermercati presenti nel paese sono stati adibiti a campo di battaglia, ricoperti dal pavimento al soffitto di casse di birra che venivano acquistate e rinnovate con frequenza sorprendente, tanto che il W:O:A, incredibile ma vero, è stato qualificato da un quotidiano tedesco come l’evento germanico con più consumo di birra in un periodo limitato dopo l’Oktoberfest di Monaco – che a differenza del Wacken dura ben un mese.
La struttura dell’intera area è rimasta immutata: un’enorme area camping divisa in settori, nella quale si stabiliscono gruppi di tende divise molto spesso per nazionalità, quindi un’area comune nella quale si ritrova il caro vecchio lavaggio d’auto a rulli tramutato in lavaggio-metallari a rulli, lo stand della PRINCE, produttore di sigarette e sponsor della manifestazione, quindi una serie di stand che offrivano cibo altamente calorico di tutti i tipi, stand di birra e idromele e l’immancabile Metal Markt, Mecca di qualunque metallaro affamato di CD e merchandising di tutti i tipi.
Infine l’area concerti divisa nei canonici Black Stage e Heavy Metal Stage, quindi Party Stage, W.E.T Stage (curioso perché nonostante il nome che ricorda la parola “bagnato” in inglese, questo fu l’unico stage asciutto durante il piovosissimo Wacken 2005 perché al coperto), un altro piccolo stage senza nome nel quale si esibiva quotidianamente la Wacken Firefighters Band, quindi il grande Biergarten, ritrovo sociale soprattutto notturno di chiunque abbia voglia di dare di testa sotto i fumi dell’alcool (quest’anno per la prima volta corredato di un sontuoso stand che serviva la nota Weiss Fraziskaner) e infine l’area backstage con mini-beer garten annesso e comode postazioni internet per tutti gli addetti alla stampa.

L’organizzazione come al solito è stata precisa e ben coordinata, nonostante il solito problema dello staff che parlava a stento inglese (caratteristica francamente inaccettabile per un festival cosmopolita come questo); le zone dei bagni erano sempre pulite (50 centesimi per usufruire dei bagni, 2,50 euro per usufruire delle docce – un’enormità di flusso di denaro per un festival pesantemente segnato da una delle bevande più diuretiche del mondo, la birra) e una serie di ambulanze pronte a scattare per ogni minimo problema.

Girando per il camping non si poteva fare a meno di notare il modo in cui la fantasia di tutti i metallari del mondo si è sbizzarrita, quest’anno più che mai. Ogni sezione del camping aveva qualcosa di interessante da osservare, ovviamente interamente costruita e ideata dagli avventori. Così come nel 2004 ci fu quel gruppo di norvegesi di Arendal che rubò un autobus e lo guidò fino a Wacken, cambiando il numero da 21 a 666, così quest’anno si poteva notare un gruppo di tende militari basse ricoperte di foglie – il campo mimetico, un vero incubo per un ubriaco che di notte non distingue un albero da un sasso. C’era anche un campo vichingo, costruito con un portale e una palizzata in legno nel quale vagavano personaggi armati di spade gonfiabili e corni da bevuta; oppure c’era un vero e proprio mini parco giochi con tanto di ruota panoramica in miniatura e scivolo. Non mancavano anche le trovate ingegnose dei più perversi, che montavano stand lungo i sentieri delle tende in cui davano votazioni a qualunque donzella avrebbe mostrato il proprio seno (il famigerato “flash your tits for Satan!), oppure una coppia di tende che offriva provini per film a luci rosse.
La componente femminile è in continua ascesa al Wacken Open Air, e anche se quest’anno non era presente la sorprendente accopiata gotica Nightwish – Within Temptation dell’anno precedente, il gentil sesso ancora vagava vestito succintamente e rendeva gradevole alla vista il periodo tra un concerto e l’altro.

Scampato miracolosamente un enorme temporale che sfiorò minacciosamente l’area camping il 2 agosto, (si potevano vedere le pesantissime piogge che solcavano l’orizzonte a qualche chilometro di distanza), il tempo è andato via via migliorando, non senza qualche passaggio nuovoloso, e più che lo spettro del 2005, ritornò in auge lo spettro del 2004. In particolare al termine della giornata di venerdì, particolarmente calda, al Biergarten si potevano notare i volti quasi scorticati dal sole della maggior parte degli astanti. Notevole è stata anche la notte di sabato 5 agosto, notte in cui è calata un’inusuale coperta di nebbia su tutta la regione, una nebbia talmente fitta e densa che si scorgevano solo le punte di alcune delle tende più alte, e il resto era affidato solamente all’istinto di orientamento di ognuno. Nell’umidità oppressiva, in quella stessa sera, si è manifestato un altro inusuale avvenimento: il proliferare di incendi tra le tende. In particolare nel settore in cui dimorava buona parte di Truemetal, si trovava un lungo e stretto fosso il quale fu riempito di materiale infiammabile – anche plastico – che venne dato alle fiamme. La provenienza di questi atti vandalici di cui francamente si poteva fare a meno era plurima: la maggior parte dei piromani era tedesca, ma anche sloveni, irlandesi e inglesi hanno fatto la loro parte (almeno quelli che personalmente ho interrogato sulla questione). Anche nei pressi delle nostre tende un gruppo di otto tedeschi ubriachi ci chiesero se potevano utilizzare nostre casse di birre (ovviamente di plastica, e ovviamente vuote) per alimentare i roghi che si trovavano a qualche metro di distanza dalle nostre tende.
Non è passato molto tempo prima che arrivassero delle camionette dei vigili del fuoco che, silenziosamente, spensero i roghi a colpi di schiuma ignifuga senza proferire parola, come se si aspettassero queste condizioni e quindi non servisse indagare sui colpevoli. La mattina dopo si poteva notare l’area campeggio costellata di macchie di plastica fusa mischiate a chissà quanti altri tipi di materiali diversi. Per fortuna non v’è stata notizia di tende bruciate (almeno involontariamente; pare infatti che alcune tende siano state distrutte e date alle fiamme dai propri possessori che non avevano intenzione di riportarle a casa). Speriamo vivamente che questo trend non si acuisca con il passare degli anni, visto che oltre a essere inutile e dannoso per i fumi sviluppati e per la terra che nel resto dell’anno è un pascolo, è anche pericoloso.

Una panoramica generica alle condizioni prettamente “metal” del festival, che verrà ovviamente sviluppata nelle recensioni dei gruppi singoli, vede anche quest’anno una eterogeneità nelle proposte musicali davvero notevole; diversità che ha portato a varcare i cancelli della manifestazione a ben 62.000 metalhead, una cifra assolutamente record raggiunta senza evocare nomi altisonanti dalle sfere più alte dell’olimpo metal. Dopo gli anni passati particolarmente felici, purtroppo quest’anno è mancata quasi completamente la componente thrash metal; tuttavia Wacken si è comunque confermato festival all’avanguardia, ingaggiando e proponendo band a 360° della scena metal. Il Wacken 2006 è però anche stato il primo con un problema ricorrente: il suono dei palchi principali, una seccatura che di tanto in tanto si è presentata per tutti gli ultimi due giorni. Scelta dell’organizzazione o problemi tecnici improvvisi, fatto sta che la piaga dei volumi bassi ha compromesso diversi show, a partire da quello dei Finntroll, passando per i primi momenti dei Morbid Angel, per finire a diverse altre vittime. Peccato.

In ogni caso, negli ultimi anni Wacken ha deciso di regalare ai convenuti spettacoli di grande impatto scenografico e musicale, chiamando alla sua corte diverse band di quel movimento folk e folk-rock tipico della Germania del centro-nord. Cornamuse e liuti, interpretazioni corali e fiati per spezzare il ritmo forsennato dei trademark più canonici del metal. Esibizioni che spesso e volentieri hanno catturato l’attenzione e le simpatie di moltissimi presenti. Nel 2006 l’onore di occupare questi seggi tocca a IN EXTREMO e SUBWAY TO SALLY. Bravissimi i primi, seppur destinati a un pubblico consapevole, altrettanto suggestivi i secondi, ai quali è affidata la chiusura del festival. Una scelta che continua a rivelarsi vincente e che l’anno prossimo porterà a Wacken i bravissimi Schandmaul.

GIOVEDI’ 3 AGOSTO

VICTORY
Reduci dalla fortunata partecipazione all’annuale Bang Your Head!!!, i Victory concedono il bis sul palcoscenico dell’open air più seguito in Europa. L’aria di casa ha effetti benefici su Herman Frank e soci, che ripropongono con potenza i classici del repertorio e strappano i primi applausi importanti; ottime le varie Power Strikes The Earth, Temples Of Gold e On The Loose. La serata dedicata all’hard rock di classe comincia nel migliore dei modi, in attesa di un headliner che promette il botto assoluto.

M.S.G.
Serata speciale per la 6-corde di Michael Schenker, chiamata ad affiancare la gemella di Rudolph nel piatto forte del primo giorno. In attesa degli Scorpions, ecco una carrellata di successi direttamente dai primi anni di vita di M.S.G., progetto tributato dalle acclamate Ready To Rock, Armed And Ready e la pirotecnica Into The Arena. Spazio anche al repertorio targato UFO, da cui spicca una corale Doctor Doctor. Qualche dubbio sulla prova di Chris Logan, spesso in debito d’ossigeno, mentre annotiamo con piacere che l’estro di Micheael Schenker non è andato perso negli anni. Ottimo riscaldamento.

SCORPIONS
A night to remember, la grande promessa degli organizzatori: volti di oggi e di ieri su un unico palcoscenico, uniti nel rievocare un mito che non conosce limiti generazionali. L’evento non tradisce le attese, regalando pura magia alle migliaia di fan accorsi sotto il True Metal Stage, parso ancora più imponente per l’occasione. Se la micidiale accoppiata Coming Home – Bad Boys Running Wild (che apertura!) non lascia dubbi sulla qualità dello spettacolo, è con l’ingresso degli ospiti d’onore che lo show tocca il suo apice: si parte con il tocco fatato di Uli Jon Roth, protagonista su un’intensa In Trance, passando attraverso le note di Holiday (con Michael Schenker) e il ritorno di Herman Rarebell dietro il drum-kit. Il programma prevede oltre due ore di musica, con valanghe di classici (Blackout, The Zoo, No One Like You, Still Loving You, Dynamite, Big City Nights), l’ugola d’oro di Klaus Meine e un finale con cinque chitarristi in scena (Rudolph, Michael e Tyson Schenker, Matthias Jabs e Uli Jon Roth) e un gigantesco scorpione meccanico a ipnotizzare la folla. Quando anche Rock You Like A Hurricane è solo un ricordo, cala il sipario su una prima giornata memorabile. Come promesso.

VENERDI’ 4 AGOSTO

LEGION OF THE DAMNED
Ex-Occult, i Legion Of The Damned suonano un genere che senza dubbio è mancato troppo all’edizione 2006 del W.O.A.. Pur pescando a piene mani dal repertorio di Sodom e affini, gli olandesi convincono grazie a una proposta dinamica e varia per quanto possibile, con periodici cambi di tempo che stemperano l’assalto programmatico di ogni brano. Malevolent Rapture (title track del debutto su Massacre), Bleed For Me e la conclusiva Legion Of The Damned sono brani che lasciano il segno, dimostrando che si può ancora proporre dell’ottimo thrash metal senza suonare innovativi a ogni costo, ma ricercando prima di tutto una certa identità. Da seguire: in futuro potrebbero regalare piacevoli sorprese.

SIX FEET UNDER
Nonostante una carriera costellata da alti e bassi, i Six Feet Under hanno guadagnato negli anni una certa fama sui palchi di mezzo mondo, ragion per cui sono seguiti volentieri anche da chi li trova irrimediabilmente noiosi su disco. Wacken non è fortunata quest’anno: la proposta della band, orientata per lo più su tempi medi, stenta a decollare sul serio, trascinandosi stancamente e senza offrire particolari spunti d’interesse; complice la luna storta di Chris Barnes, a tratti insofferente, lo show si trasforma in una maratona monolitica che in pochi reggono fino all’ultimo, nonostante l’inserimento delle cover di War Machine (Kiss) e T.N.T. (AC/DC). Mediocri.

CADAVERIC CREMATORIUM
Meritevoli di menzione sono sicuramente i re blasfemi del W.E.T. stage, vincitori della Metal Battle Italiana, nientemeno che i bresciani Cadaveric Crematorium. Il loro death metal brutalissimo, pregno di atmosfere glaciali in stile Napalm Death, ha divertito tutti gli astanti grazie alla sequela di tracce tratte dall’ultimo Serial Grinder. Imperdibile lo show finale in cui hanno intonato un “Don’t Cry” melense che ha mandato in visibilio la folla, unito a una canzone in italiano talmente densa di parolacce e insulti da far uscire di testa gli italiani e lasciare di stucco chi, per una volta, non capisce il nostro idioma. Grande prestazione.

NIKKI PUPPET
Un album quasi discreto e un’attitudine molto rock’n’roll (almeno nei luoghi promozionali) mi hanno attirato verso l’esibizione dei Nikki Puppet, band per metà femminile e guidata dalla voce di una Nicky Gronewold che su disco aveva convinto abbastanza. Ebbene, è stata una discreta delusione. La mora singer è l’unica ad avere una vaga idea di come tenere un palco (comunque piccolo e secondario come quello del Wet Stage) ma il problema vero resta nei brani, che in sede live confermano la mancanza di traino e carisma. Un altro delle incognite emerse dell’album era il compromesso tra vecchia scuola e modernità; speravo che in sede live il primo fattore prendesse il sopravvento e invece i dubbi sulle coordinate musicali della band restano e in qualche modo si dilatano.

NEVERMORE
Ormai trapiantata in Europa, la band di Seattle si presenta al pubblico di Wacken con una formazione rimaneggiata, che vede l’innesto temporaneo di Chris Broderick (Jag Panzer) al posto di Steve Smyth. Il set proposto pesca esclusivamente dagli ultimi tre album incisi, scelta già nota ai frequentatori abituali dei festival: a I, Voyager, Enemies Of Reality e Final Product il compito di spezzare l’egemonia di Dead Heart In A Dead World, al solito il più saccheggiato. Show nel complesso positivo, nonostante diffusi problemi tecnici alla chitarra di Jeff Loomis e una prestazione altalenante di Warrel Dane, partito male ma ritornato su livelli degni nelle conclusive This Godless Endeavor e Born.

OPETH
Subito dopo l’esibizione dei Nevermore, ci ritroviamo nella posizione giusta per goderci l’ennesima performance degli Opeth, alla loro seconda apparizione a Wacken dopo quella del 2001. C’è da dire che per tutto il concerto c’è stata come sottofondo l’esibizione dei Soilwork al party stage, per cui i suoni degli Opeth non erano mai chiarissimi, e Åkerfeldt ne ha approfittato per insultare scherzosamente la band, fatta di contadini dello Skåne.
I quattro di Stoccolma dopo la breve intro comune al tour di Ghost Reveries attaccano subito con The Grand Conjuraction: i suoni all’inizio sono un po’ confusi, ma dopo diversi minuti tutto si aggiusta. Si nota subito la differenza di tocco tra Lopez e il nuovo batterista Axenrot, abituato a sonorità decisamente più violente, ma riesce comunque a fare egregiamente il suo lavoro. Seconda canzone della setlist è The Amen Corner da My Arms, Your Hearse, inaspettata e quasi mai suonata live; solita è la precisione nell’esecuzione, che poi prosegue con la famosissima The Leper Affinity tratta da Blackwater Park. Altra pausa, altra battuta del frontman e si riprende con Closure, canzone acustica dai vaghi tratti orientali; anche qui tutto va come da copione, con un lungo intermezzo nel punto dove su album entra la chitarra elettrica e comincia il riff orientaleggiante. Lo show si chiude con Deliverance, canzone nettamente più aggressiva delle altre e con la quale il pubblico si lascia coinvolgere di più.
Alcune considerazioni: è evidente che nei festival l’atmosfera è decisamente diversa rispetto alle date da headliner e anche dato il genere che suonano e la lunghezza delle canzoni non sono il massimo del divertimento. Tenendo conto poi del fatto che ormai sono una band di primo piano, mostrare un po’ più di impegno e fantasia non avrebbe guastato, essendo anche al festival metal più importante del mondo: suonare versioni ridotte delle canzoni e suonarne di più (e non allungare in maniera allucinante Closure, portata a 8 minuti!), improvvisare maggiormente e adottare soluzioni visive più spettacolari data la loro immobilità sul palco.
Prestazione comunque più che soddisfacente.

VREID
Interessanti, anche se non particolarmente esaltanti, sono stati i Vreid nel W.E.T stage. La band norvegese ha ricordato per un attimo i Windir, i cui fans affollavano il palco coperto seppure a un’ora un po’ traballante. Oscuri e dotati di una potenza non indifferente, hanno presentato una buona selezione da Kraft e il nuovo Pitch Black Brigade, dal quale è risaltata in particolare l’ottima Left to Hate. Davvero interessante, se non altro per passare un’oretta in compagnia di buon black.

KORPIKLAANI
La prima volta può essere una serata di grazia, la seconda una coincidenza… ma se per la terza volta in pochi mesi una band ti rimanda a casa (o in tenda) esausto, totalmente fradicio di sudore, senza voce e completamente appagato, allora forse è il caso di cominciare a fare delle capacità live di questa band una realtà consolidata. Sin dalle primissime battute i Korpiklaani sono un fiume in piena, complice un inizio di scaletta che come al solito predilige le altissime velocità e brani assolutamente trascinanti. Al trittico di apertura Journey Man, Väkirauta, Happy Little Boozer è già un delirio totale. L’atmosfera del Party Stage calza a pennello alla compagine di Jarvela e se sopra il palco tutto va alla perfezione, sotto il palco si può dire che vada ancora meglio: si canta, si danza e ci si diverte. È una vera e propria festa di aggregazione e divertimento. Non manca davvero nulla: ci sono gli episodi da baldoria come Wooden Pints e Cottages & Saunas, c’è il siparietto solista del violino di Hittavainen e ci sono tutti i figlioli prediletti a la Korpiklaani e Spirit of the Forest. Come da copione le scorrerie di Hunting Song e Beer Beer chiudono il set, ma questa volta arriva anche un bis inaspettato: nell’encore c’è da festeggiare il ventesimo compleanno di Juho Kauppinen, e allora quale occasione migliore per portare in sede live la splendida Midsummer Night? Divertenti, spettacolari, esaltanti: in assoluto tra i migliori del festival, in compagnia di mostri sacri come Scorpions ed Emperor.

CHILDREN OF BODOM
Ad accogliere la formazione finlandese troviamo un mare sterminato di gente, molta della quale sciamata dal Party Stage, dove stavano terminando i Korpiklaani, fino all’Heavy Metal Stage. Poco prima dell’inizio del loro concerto già la folla superava la torre delle luci e del mixing, folla entrata subito in delirio non appena Alexi, entrato con lo sguardo superiore e sprezzante come al solito, intona uno dietro l’altro tutti i tumultuosi cavalli di battaglia Bodomiani. Particolarmente devastanti sono stati “Hate Crew Deathroll” suonata come seconda, e le bombe dell’ultimo “Are You Dead Yet?” e “Needled 24/7”. In forma come sempre, anche se Laiho sembrava leggermente stanco, tanto che spesso ha lasciato che la potenza del sound supplisse alla sua voglia non proprio esplosiva di cantare di fronte a una folla tanto adorante.

CELTIC FROST
Negli ultimi anni di reunion ne abbiamo viste tante, molte delle quali hanno lasciato più amarezza e disappunto che altro. Delusioni che si portano dietro mari di critiche, e giustamente: che bisogno c’è di riesumare nomi dagli antichi fasti per poi infangarli con prestazioni mediocri e a volte persino sconcertanti? Una domanda che forse avrebbero dovuto farsi anche i Celtic Frost prima di presentarsi in queste condizioni a fare da headliner nel festival metal più importante del mondo. Fiacca e in netta difficoltà la band di Zurigo è meno di una copia sbiadita di quanto fu negli anni ’80. E non c’entrano stupidaggini come l’atmosfera di quegli quei tempi e la magia dei garage: la realtà è che l’ingranaggio Celtic Frost, oggi, proprio non va. Esecuzioni deboli, brani talvolta proposti in maniera notevolmente più lenta rispetto alla versione da studio, una setlist costruita in maniera del tutto discutibile e una presenza scenica che si è persa per strada. Un fallimento amplificato dal fatto che tutte le speranze di un po’ di sano e vecchio thrash metal, in questo Wacken 2006, erano proprio legate al nome Celtic Frost.

AMON AMARTH
Finalmente, esattamente come avvenne anche nel 2005, entrano in scena gli Amon Amarth nel cuore della notte, ovvero alle due del mattino – band di chiusura della giornata. Il palco è il Black Stage, e la sua estensione consente alla band svedese di spaziare di fronte a una folla di decine di migliaia di persone, dimostrazione della strada percorsa da Hegg e soci da quel periodo in cui, ai tempi di The Crusher, non erano in grado di agglomerare più di 50 persone insieme. Purtroppo anche stavolta l’audio non è stato uno dei migliori, anche se è decisamente migliorato dalla cacofonia dell’anno precedente. Scaletta intrigante, anche se pregna di Fate of Norns, cosa che può lasciare più o meno interdetti a seconda dei propri gusti personali, ma anche piena di colpi di classe come un’ottima “From the Stabwounds to Our Backs” e una notevole, nonostante la provenienza, “An Ancient Signs of Coming Storm”. Da cardiopalma ovviamente l’introduzione in chiave sinfonica di “Amon Amarth”, già descritta con dovizia di particolari nella parte iniziale della recesione di “Wrath of the Norsemen”, e da altrettanto cardiopalma il lunghissimo intermezzo teatrale regalatoci dagli Jomsviking che hanno inscenato una battaglia vichinga sempre sulle flebili, ma impetuose, note di Amon Amarth. La battaglia, con tanto di effetti scenografici, è proseguita per un buon quarto d’ora durante il quale abbiamo assistito a dimostrazioni d’arte bellico-medievale (a tratti un po’ pacchiane) e persino a uno straccio di trama: alcuni combattenti venivano effettivamente eliminati e rimanevano al suolo per tutta la durata dello show. Interessante, insomma, fino a un possente Death in Fire circondato di fiamme reali e una sempitrna Victorious March che trascina la folla in un pogo devastante. Un ottimo show a cavallo tra la promozione di Wrath of the Norsemen e l’incipiente With Oden on our Side, del quale è stata presentata a sorpresa una canzone.

SABATO 5 AGOSTO

METAL CHURCH
Relegati in un Party Stage che non fa onore ai tanti anni sulle spalle della band, i Metal Church aprono la giornata di sabato con un intenso show a base di puro US Heavy Metal, merce rara in un festival sempre più orientato verso altri lidi. Accanto alle nuove A Light In The Dark e Mirror Of Lies, bissata con tanto di videoclip improvvisato, c’è spazio per ricordare David Wayne e la leggenda di Watch The Children Prey, Ton Of Bricks, Start The Fire. Chiusura in grande stile con Gods Of Wrath, Beyond The Black e Metal Church, a ricordare che il gruppo è vivo e vegeto; forse un po’ ammorbidito dagli anni, ma ancora in grado di servire una degna liturgia metallica.

WHITESNAKE
Dopo l’esaltante esibizione dei Gamma Ray, il True Metal Stage regala nuove emozioni con gli impeccabili Whitesnake. Il set è una dedica diretta agli amanti del grande 1987, rispolverato con gli innesti di Bad Boys e Give Me All Your Love, più le sempreverdi Still Of The Night, Crying In The Rain e Is This Love nelle loro versioni più popolari. La band è in ottima forma, dalla gagliarda coppia Beach-Aldrich al padrone di casa Coverdale, in grande spolvero durante tutto il concerto anche se non ai livelli assoluti di qualche annetto fa. Il finale con Here I Go Again è l’ennesimo estratto dal diciannovenne masterpiece della band, già ampiamente riesumato durante tutta la durata dello show. Per loro un bagno di folla premiato da un’esibizione scintillante, come da tradizione del Serpente Bianco.

ARCH ENEMY
Grazie all’enorme fama guadagnata dagli anglo-svedesi negli ultimi anni (legata più o meno all’estetica della band), il Wackenvolk sembra non curarsi dei 10 minuti di ritardo. Non avendo seguito lo show da vicino, i suoni sono sembrati un po’ deboli nelle prime canzoni, che è esattamente ciò che successe nel 2004. Ottimo il tapping combinato di Amott e Åkesson in Dead Bury Their Dead, ma è chiaramente con We Will Rise che la Gossow eccita tutto il pubblico in un pogo sfrenato. Molto apprezzati gli altri pezzi proposti, tra cui spiccano la tremenda Ravenous, Dead Eyes See No Future e My Apocalipse.

FEAR FACTORY
Chiamati a svegliare un pubblico altrimenti intorpidito da un pomeriggio umido e senza un filo d’aria, i Fear Factory sacrificano un terzo della scaletta per via di suoni ancora in assestamento. Risolto ogni inconveniente tecnico, l’assalto martellante della band non tarda a farsi vivo, trasformando anche un brano come Linchpin (a suo tempo contestato con il resto dell’album) in un episodio imperdibile del set. Demanufacture, Edgecrusher, Archetype e Slave Labor tra i momenti migliori dell’ora a disposizione, positiva nonostante il fiatone di Burton C. Bell (bocciato sulle clean vocals) e l’assenza di un vero showman che tenga in pugno le prime file.

ORPHANED LAND
Eccezionale la prestazione degli Orphaned Land nel Party Stage. Defilati, in un pomeriggio di sole bruciante, gli israeliani hanno tenuto banco in una situazione anche leggermente delicata, vista l’apparizione proprio all’indomani dell’invasione israeliana, ma un loro “Hello Wacken, We are Orphaned Land from Israel, Shalom!” ha dimostrato che è solo la musica a regnare su Wacken. E che musica – un gruppo di compatrioti scalmanati agitava la bandiera con la stella di david mentre risuonavano le note di Sahara, El Norra Alila e del capolavoro Mabool. Indimenticabile “Like Fire to Water”, che vede tutta la band impegnata in arzigogolii musicali degni del disco da studio, sempre pieni di carica e con il sorriso sulle labbra. Un’incitazione a saltare tutti all’unisono durante la fantastica “Norra el Norra”, fiore all’occhiello di Mabool, riesce a incendiare persino dei black metaller con la croce rovesciata al collo, che probabilmente non sanno di cantare – per quanto possibile – quella che non è altro che un’invocazione a Dio e alla sua misericordia.

MORBID ANGEL
A conferma di un’allergia al soundcheck che è ormai tappa fissa di ogni show della band floridiana, i Morbid Angel si presentano con una Rapture godibile solo dalle prime file. I problemi persistono e la 6-corde di Trey Azagthoth non emerge prima di quattro-cinque brani. Da quel mometo però è proprio l’ascia di Trey a trainare l’esibizione verso livelli finalmente soddisfacenti: Lord Of All Fevers And Plagues, Chapel Of Ghouls, Fall From Grace e la conclusiva God Of Emptiness sono patrimonio indiscusso del genere, e gli applausi non tardano ad arrivare copiosi. Recuperato Erik Rutan, l’assetto della band non teme confronti, rivelando proprio nel redivivo Dave Vincent – al solito imbalsamato al centro del palco – l’unico potenziale punto debole. Una solida conferma, nel bene e nel male.

GAMMA RAY
Verso le 17.15 Wacken può riabbracciare Kai Hansen e i suoi Gamma Ray. Mi aspettavo una di quelle tipiche calorose accoglienze che il festival dedica solitamente ai beniamini di casa, e invece il benvenuto che Wacken riserva allo zietto dell’happy metal è piuttosto freddo e lascia alquanto sorpreso il sottoscritto. La folla davanti al True Metal stage è poco numerosa, piuttosto distratta e anche decisamente poco coinvolta. Sarà il sole che comincia a martellare sul serio ma i wackeniani decidono di prendersi una pausa dai concerti proprio durante l’esibizione del Raggio Gamma. Peggio per loro, perché Kai Hansen e compagni mettono in piedi uno show piuttosto lineare ma comunque di tutto rispetto. Partenza con il solito intro Welcome e Garden of the Sinner – ogni volta il sottoscritto spera in una Lust for Life a sorpresa, ma niente da fare, Heading for Tomorrow e i dischi dei primi anni sembrano ormai caduti nell’oblio e di lì via a ripercorrere tutta la recente discografia della band di Amburgo. Apice di tutta l’esibizione è senza dubbio il medley tra una rispolverata splendida Rebellion in Dreamland e l’helloweeniana I Want Out, unico brano delle zucche di tutta la setlist. Epilogo di un pubblico che proprio non si vuole lasciare coinvolgere la scena (abbastanza triste) di fine show: ai saluti di Kai molti non hanno nemmeno aspettato l’ovvio encore e si sono spostati in altre aree del festival. Non sono assolutamente di quelli che esige il rispetto e la partecipazione incondizionata per le band “anziane”, ognuno ha i suoi gusti e la devozione va guadagnata al di là della data di nascita, ma a un personaggio come Kai Hansen e a uno show come quello dei Gamma Ray forse era meglio dedicare qualche attenzione in più.

SOULFLY
Mentre in casa Sepultura si ventila da giorni l’ipotesi di una clamorosa reunion, i Soulfly non si fermano e approdano a Wacken per presentare il recente Dark Ages. Un’ora e un quarto a disposizione per Max Cavalera e soci, impegnati tra brani propri e gradite rivisitazioni di classici decennali: Refuse / Resist, Roots Bloody Roots e Troops Of Doom risvegliano tra i presenti un sincero moto nostalgico, nonostante le varie Back To The Primitive, Jumpdafuckup e la ‘nuova’ Babylon diano il meglio di sè proprio in chiave live. Uno dei concerti più seguiti della giornata, per la soddisfazione di un Cavalera in buone condizioni fisiche e vocali.

ATHEIST
Se si va ad un grande evento come Wacken e gli Atheist sono nel bill, non andarli a vedere è un peccato mortale. Il quintetto americano dà vita ad uno spettacolo intenso e pieno d’energia nel tardo pomeriggio wackeniano. Il livello tecnico è incredibile e la band coinvolge i molti spettatori presenti con pezzi come On the Slay, Unholy War, I Deny, An Incarnation’s Dream per poi dar vita all’esaltazione totale con il classicissimo Air. Degno di nota l’assolo di basso di Tony Choy di Samba Briza. Feel them burn!

EMPEROR
L’attesa del momento clou del Black Stage, che deve proprio il suo nome a mostri sacri come i due headliner degli ultimi due anni, diventa insopportabile finché non si sentono i primi passi scricchiolare e fischiare attraverso i microfoni: giungono gli Emperor, una visione leggendaria sparita da troppo tempo dai palchi di tutta Europa. Ishahn è quasi raggiante quando dà il benvenuto a tutta Wacken, peccato che probabilmente l’abbia sentito solamente la prima fila. Il volume del suo microfono è talmente basso che io stesso, che ero non troppo lontano dal palco, pensavo stessero continuando a suonare un’intro strumentale da qualche minuto. Invece le voci che si accavallavano e provenivano dalle prime file, assicuravano che in realtà aveva cominciato a cantare da qualche minuto.
La situazione grottesca è andata avanti per un po’ quando un tecnico del suono ha risolto eroicamente il problema e finalmente abbiamo potuto assistere a una scaletta elettrizzante con brani provenienti dagli album meno conosciuti come “IX Equilibrium”, “Prometheus…” e “Anthems To The Welkin At Dusk”. La tastiera in particolare è risaltata molto, dandogli un aspetto decisamente più diverso dagli Emperor più lugubri di primo pelo, ma è bastato qualche cavallo di battaglia dall’immortale “In the Nightside Eclipse”, tra cui ovviamente la canzone forse più rappresentativa dell’intero black metal, “I am the Black Wizards”, a riportare all’ordine chiunque dubitasse dell’essenza nera degli Imperatori di Norvegia.

MOTORHEAD
Più passano gli anni e più i Motorhead sembrano possedere il dono dell’ubiquità. Sono qui, sono là, sono su e sono giù. Poco male, perché tra nuove leve ai primi passi e vecchi dinosauri con più o meno acciacchi, i Motorhead rappresentano quella sorta di garanzia che non scatena l’attesa ma che in un festival fa sempre piacere ritrovare. Quando Lemmy & Co. salgono sul palco sai già che non ci saranno sorprese: è in arrivo un’ora di heavy rock’n’roll nudo e crudo in un formato più che consolidato. Formato che prevede i classicissimi (Ace of Spades, Overkill e compagnia), qualche pezzo dall’ultimo disco da studio (in questo caso, Inferno) e qualche brano pescato qua e là dall’ormai trentennale carriera (siamo a 29 dall’uscita di Motorhead). A dire la verità mister Kilmister non è esattamente in una delle sue serate migliori e la scaletta pecca di un paio di assenze importanti, ma questo non influisce poi più di tanto sull’esibizione. Il solito Mikkey Dee pesta che è un piacere, Phil Campbell procede senza errori e così anche se Lemmy non è in condizioni ottimali tutto procede secondo i piani. Alla fine i Motorhead sono questi: tanto di più e tanto di meno non saranno mai, e va benissimo così.

FINNTROLL
Ci sono tanti tipi di attitudini live, sopra e sotto al palco. Nel caso Finntroll, in entrambe le dimensioni ci si aspetta grande vitalità e impatto. Una band compatta sul palco e una bolgia infernale fatta di animali appena sguinzagliati fuori dalla gabbia, sotto: una folla pronta a cantare e sbraitare al ritmo delle polke e delle melodie trascinanti dei troll finnici. La musica deve travolgere come un fiume in piena. Dovrebbe essere così, purtroppo invece a Wacken è andata diversamente. Non ci sono virtuosismi da ammirare nella musica dei Finntroll, ma solo la colonna sonora ideale per una festa sotto al palco, tra grida, cori, canti e pogo. Questo non è stato possibile, neppure nelle due-tre primissime file dove mi trovavo. I motivi? Sono 2. Primo, un pubblico troppo impreparato sulla materia per godersi davvero lo show; secondo (e soprattutto) un volume basso, troppo basso, terribilmente basso, che ha compromesso e mutilato tutto lo show della band finlandese. Per dare un’idea della situazione basta dire che non si poteva cantare, altrimenti la voce avrebbe tranquillamente sovrastato quanto usciva dall’impianto. Occasione sprecata perché i Finntroll hanno suonato comunque bene e proposto una scaletta tutto sommato molto interessante. Sì, la band si è dimenticata di qualche vecchia gloria (vedi Rivfader) ma ha comunque sfoggiato diversi classici (Midnattens Widunder, Jaktens Tid, Vatteanda) rappresentato a dovere l’ultimo Nattfodd (Nattfodd, Fiska, Manni, Ursvamp), rispolverato qualche brano davvero devastante (Slaget vid Blodsalv, Svartberg) e aggiunto come surplus tre brani nuovi di zecca in anteprima mondiale. Insomma, in definitiva la promozione dal Party Stage al Black Stage non ha giovato alle creature di Helsinki: l’atmosfera che c’era lo scorso anno sotto al palco laterale era totalmente diversa e nettamente preferibile. D’altronde il successo ha i suoi pro e i suoi contro, e con il numero di fan che si ritrovano i Finntroll oggi, lasciare la band sul Party Stage era impensabile. Già l’anno scorso molti di quelli che avrebbero voluto godersi il concerto si sono dovuti piazzare in aree molto laterali dove sia visuale che suono erano pessimi.

Con i fuochi dei Subway to Sally immersi nella nebbia termina così Wacken 2006. Al 2007 allora, quando Wacken tornerà il centro del mondo del Metal.

Daniele “Fenrir” Balestrieri
Alessandro “Zac” Zaccarini
Federico “Immanitas” Mahmoud
Mimmo “Greystar” Saracino