Rush fotoreport – Milano 23/10/2007
Parole di Mauro Gelsomini, Riccardo Angelini, Diego Cafolla e Cristian Della Polla. Foto di Mauro Gelsomini e Cristian Della Polla.
Truemetal.it ringrazia Barley Arts, nella persona di Francesco Negroni.
Dopo una spasmodica attesa, che per qualcuno è costata quasi un bypass coronarico, è arrivato finalmente il 23 ottobre 2007. Questa data rimarrà impressa a lungo nei cuori dei presenti alla seconda calata sul suolo Italico del trio più famoso del Canada. Gli occhi già lucidi fin dalla partenza a causa della velata sensazione, quanto meno in termini probabilistici, che lo spettacolo a cui si assisterà potrebbe essere l’ultimo…
L’evento, per noi di Truemetal.it, è ancora più eccitante, essendo riusciti ad organizzare un nutrito manipolo di eroi che da Roma, passando per Chiusi, Firenze, Bologna e Piacenza, è arrivato al Datch Forum milanese sul pullman Rockerbus/Truemetal per una trasferta davvero indimenticabile.
All’arrivo, più o meno alle 18.00, l’atmosfera che si respira è quella del grande evento, come già fu nell’ormai storica data milanese del 2004, e l’affluenza del pubblico è tutto sommato notevole, se si considera il salasso economico garantito dal prezzo dei biglietti e la giornata lavorativa. Del resto, il successo del nuovo Snakes And Arrows è stato pienamente confermato dal tour mondiale in corso, fortunato al punto da convincere i tre canadesi a raddoppiare il numero di date, lievitate dalle sessanta previste a centodieci. La trepidante attesa della folla accalcata, nonostante il freddo, fuori dai cancelli è almeno in parte riscaldata dalla vibrazioni del sound-check. Qualche ardimentoso si intrufola in uno dei corridoi dell’impianto, per carpire qualche nota: tra le indiscrezioni circolate nei giorni precedenti lo show si era millantata la presenza delle suite di ‘Hemispheres’ e ‘A Farewell To Kings’ – indiscrezioni che almeno per quanto riguarda la data odierna non ci è dato confermare, giacché i brani ascoltati non differivano da quelli poi ascoltati nel corso dell’esibizione.
Il sole è già tramontato alle spalle del Datch Forum quando finalmente i cancelli si aprono per accogliere la folla che poco a poco andrà a riempire il palazzetto (il quale pure non raggiungerà il tutto esaurito). Sul palco dominato dalla mastodontica batteria di Mr. Peart incombono i consueti tre maxischermi – i video saranno il valore aggiunto per più di un brano – oltre a tre dischi volanti travestiti da set di luci mobili (o viceversa, chissà). Il set di lavatrici utilizzate a guisa di suppellettili nel corso dei due tour precedenti è invece per l’occasione sostituito da tre forni da rosticceria, con tanto di polli allo spiedo all’interno. Gli amplificatori di Alex Lifeson sono invece pieni di pupazzi di dinosauri, perfino all’interno della grata delle testate, mentre davanti alla pedaliera si accalca una nutrita schiera di adulanti Barbie-groupies, con tanto di striscioni sui quali la leggenda vuole che i roadies di Alex siano soliti lasciare messaggi “particolari”, così da scatenare la puntuale ilarità del chitarrista biondocrinito.
Tempus fugit. Ore 21:00, le luci si spengono. Ha inizio lo spettacolo!
Il sipario si apre su uno spassoso filmato introduttivo, dominato dall’ironia cui i nostri ci hanno da tempo abituato: è la miccia che accende il classico ‘Limelight’, accolto con un boato dal pubblico esultante. Inizialmente il brano pare soffrire di qualche disguido tecnico: il suono appare molto impastato sulle note basse e il rullante di Peart ogni tanto scompare. L’infelice contrattempo sembrerà creare un piccolo momento di panico all’attacco del solo di Lifeson, superato però in scioltezza dalla band. Già con la successiva ‘Digital Man’ le cose iniziano a girare per il verso giusto. La band tira fuori una prestazione da urlo, con un inedita coda strumentale da brivido, eloquente dimostrazione della proverbiale perizia tecnica del trio nordamericano. Di qui in avanti il concerto altro non sarà che un incredibile crescendo di emozioni, innescate dall’accoppiata ‘Entre Nous’/’The Mission’ per passare da una perfetta ‘Freewill’, nella quale a lasciare attoniti più d’ogni altra cosa è la voce di un Geddy Lee in stato di grazia, capace di superare anche la già notevole prestazione offerta nell’occasione della precedente data milanese. Ma non di soli classici vivono i Rush. La strumentale ‘The Main Monkey Business’, estratto dal nuovo disco, è una vera e propria mazzata e sarà uno degli highlight non annunciati della serata, a dimostrazione del fatto che, nonostante i quasi quattro decenni di attività (nel 2008 la coppia Lee/Lifeson celebrerà i quarant’anni di scorribande musicali fianco a fianco), la vitalità della band è ben lungi dall’estinguersi. Il pubblico dal canto suo dimostra di avere assimilato e apprezzato i nuovi brani, intonandone i ritornelli e accompagnandone entusiasta l’esecuzione. Quando, dopo un’ora abbondante, la prima parte del concerto si esaurisce rispettando sostanzialmente la scaletta prevista, la sensazione comune – persistente fino alla fine del concerto – è che il tempo sia davvero volato.
Dopo una pausa di circa 15-20 minuti un nuovo filmato introduttivo accompagna il ritorno sul palco della band. Si ricomincia con ‘Farcry’, anch’essa tratta da ‘Snakes And Arrows’, accolta alla pari di un grande classico, con il pubblico visibilmente partecipe ed esaltato dalla potenza sprigionata dal brano. Discorso non dissimile si potrebbe fare per ‘Armour And Sword’ e, soprattutto, per una sublime ‘Workin’ Them Angels’ accompagnata dai cori di un pubblico in estasi. Ma giunge presto il momento di tornare ai grandi classici: se il boato che accoglie ‘Subdivisions’ dimostra che gli storici Rush non sono solo quelli degli anni ’70, l’impeccabile esecuzione di una potentissima ‘Natural Science’ ammutolisce una folla che non sa più che altro chiedere. Risposta della band: beccatevi ‘Witch Hunt’ e la nuova strumentale ‘Malignant Narcissism’, con Geddy Lee per la prima volta alle prese con il basso Fretless (un Fender Jazz Pastorius, per compiacere i più puntigliosi). Molto opportuna la scelta di inserire ‘Hope’ alle spalle del puntuale assolo di Neil, così da allentare la tensione e permettere a band e pubblico di recuperare un po’ di energie per la cavalcata conclusiva. E il finale è davvero travolgente, con una tripletta che da ‘Distant Early Warning’ corre fino allo straclassico ‘Tom Sawyer’, passando per l’irrinunciabile ‘The Spirit Of Radio’. Fine? No, encore. ‘One Little Victory’ apre le danze con l’ormai celebre drago di ‘Rush In Rio’ a soffiare fuoco e fiamme sul palco. Un tuffo nel passato di 2112 con ‘A Passage To Bangkok’, nell’occasione della quale Geddy Lee estrae uno stupendo Rickenbecker che non utilizzava dai tempi di Moving Pictures, poi a chiudere le danze ci pensa una monumentale ‘YYZ’, con Geddy scatenato in una valanga di improvvisazioni al fulmicotone mentre Lifeson si permette di eseguire parte dei propri fraseggi usando una Barbie come plettro (se prima avevate qualche dubbio, ora dovreste esserne finalmente persuasi: costui è un folle).
Infine le luci si riaccendono: la band saluta, il pubblico applaude. Questa volta è finita davvero. Si torna con i piedi per terra, ancora frastornati da tre ore e più di grande Musica. E mentre si volge il passo verso casa, invano si cercano aggettivi per descrivere ciò che si è visto, udito, provato. In una parola: memorabile.
Memorabile è stata l’esecuzione, come è lecito aspettarsi dai grandi maestri. Al di là dell’aspetto meramente tecnico, ha colpito in positivo il suono molto pesante e aggressivo che Alex Lifeson ha utilizzato su gran parte dei brani, stemperato dalla sua versatilità sulla strumentazione acustica. Neil Peart dal canto suo non ha fatto altro che ribadire il suo strapotere nell’universo dei batteristi: c’è chi dice che sia il numero uno al mondo, e se non altro la naturalezza con la quale ha imperversato sulle percussioni nel suo assolo dovrebbe restringere di molto la cerchia dei potenziali contendenti. Ma a colpire e sorprendere più di tutti è stato forse Geddy Lee, e non tanto (meglio: non solo) per l’invidiabile perizia al basso. Non si può infatti che rimanere impressionati nell’udire un arzillo cinquantacinquenne come lui possa ancora permettersi di toccare note veramente vertiginose (come la parte acuta di ‘Freewill’ o il ritornello di ‘Circumstances’) e a reggere concerti di tre ore.
Memorabili è stato l’impatto visivo, con uno strabiliante spettacolo di luci ed effetti speciali a far da contorno alle dinamiche della band sul palco. Menzione a parte per i video, ennesima riprova della carica ironica che da sempre contraddistingue la band. Già il filmato introduttivo ne portava un esempio eloquente, con immagini di serpenti e saette fiammeggianti frutto di un incubo di Lifeson che destatosi di soprassalto esclama “cara, svegliati!” – e accanto a lui si alza Neil (il quale naturalmente dorme con le bacchette in mano). Esilarante anche l’animazione d’apertura di ‘Tom Sawyer’, con un’insolita cover band dei Rush interpretata dai mitici marmocchi di South Park per protagonista. Ma c’è spazio anche per film più articolati: da ricordare in particolare il video di ‘The Way The Wind Blows’, nel quale un’armata di maschere marcia su uno sfondo di grattacieli oscillanti al soffio del vento. L’incedere delle masse finirà inevitabilmente per portare al crollo dei grattacieli, ma da ultimo su ‘una nuda secca riva’ cadrà un seme dorato: qui potrà sorgere un albero splendente, dalle radici solide e robuste, al riparo del quale i fiori potranno crescere e sbocciare rigogliosi.
Memorabile è stato in definitiva il concerto tutto, perché nonostante l’abbondanza di pezzi tratti dall’ultimo album nessuno a fine serata ha avuto il coraggio di lamentarsi dell’assenza di questo o quel classico. Ci sono formazioni pluriosannate che dal vivo faticano a rendere la metà di quel che offrono su album. Al di là della perfezione formale del disco, è quando una band si trova là, sul palco, strumenti alla mano, che si scopre realmente che cosa sa fare. I Rush, dal canto loro, vanno semplicemente oltre. C’è qualcosa nella loro musica che non può essere inciso su alcun supporto ottico o digitale. Qualcosa che si comunica da musicista ad ascoltatore e che non può e non vuole avere medium, qualcosa che si può percepire solo avendoli davanti, qualcosa che appartiene a tutte le band veramente grandi, veramente classiche. Qualcosa che chi c’era non può mancare di aver riconosciuto.
Il viaggio di ritorno non può che essere di quelli più malinconici, anche se negli sguardi dei miei compagni è evidente la soddisfazione e la gioia per quello che, a detta di molti, è stato il miglior concerto della propria vita.
Non possiamo fare a meno di ringraziare i partecipanti alla spedizione Rockerbus/Truemetal, in primis Manuel Sessarego, e poi, in ordine sparso, i quaranta utenti che hanno sposato quest’iniziativa davvero riuscita e facente ben sperare per la sua riproposizione in futuro.
Magari, nel 2008, ancora per i Rush…
Setlist – parte prima:
Limelight
Digital Man
Entre Nous
The Mission
Freewill
The Main Monkey Business
The Larger Bowl
Secret Touch
Circumstances
Between The Wheels
Dreamline
Setlist – parte seconda:
Far Cry
Workin’ Them Angels
Armor And Sword
Spindrift
The Way The Wind Blows
Subdivisions
Natural Science
Witch Hunt
Malignant Narcissism
Drum Solo
Hope
Distant Early Warning
The Spirit Of Radio
Tom Sawyer
Encore:
One Little Victory
A Passage To Bangkok
YYZ