Recensione: 01011001
1995: The Final Experiment
1998: The Electric Castle
2000: Universal Migrator: The Dream Sequencer & Filght Of The Migrator
2004: The Human Equation
2008: 01011001
“Forever we try, forever we die”
E giunse il momento di riunire i pezzi del mosaico. Tirare le somme di una trama che – con la sola eccezione di “Actual Fantasy” (1996) – ha attraversato nel corso degli anni l’intera opera di Anthony Arjen Lucassen. Dopo aver narrato le gesta di generazioni di uomini attraverso i secoli, “01011001” sposta i riflettori dietro le quinte della rappresentazione, là ove si decide il destino della Terra. Questa volta i protagonisti sono gli altri, gli abitanti del pianeta Y, quei “Forever” che già dieci anni orsono avevano fatto la propria comparsa nell’ultima stanza dell’Electric Castle. Per dar loro voce, Arjen non si è certo accontentato dei primi capitati. Al suo cospetto si è radunata un’elite di vocalist selezionati tra i migliori interpreti della scena odierna. Rispetto all’ultima uscita da studio, il cast esce nuovamente rivoluzionato: oltre allo stesso Lucassen, soltanto Floor Jansen e Anneke Van Giersbergen avevano già inciso il proprio sigillo in calce a un precedente capitolo della storia. Al loro fianco si trovano in quest’occasione allineate personalità del calibro di Bob Catley, Jorn Lande, Hansi Kürsch, Steve Lee, Daniel Gildenöw, Jonas Renkse, Tom Englund, Magali Luyten. E scusate se è poco.
La prima, decisiva – e in toto vincente – decisione del gigante fiammingo sta nella gestione di cotanto patrimonio vocale. Anziché assegnare a ciascun brano un singolo protagonista predominate, relegando via via gli altri partecipanti a ruoli di contorno, Arjen preferisce mescolare le carte a sua disposizione e sbizzarrirsi nella composizione di duetti e cori a voci sovrapposte – inutile dire che il sound ne trae giovamento, eccome, non soltanto in termini di varietà, ma anche e soprattutto a livello emotivo.
Differente l’approccio compositivo riservato al punto di vista “terrestre”. I quattro brani che si staccano dal filo della narrazione principale non si affidano mai a più di due primi attori, ridimensionando la portata dei cori a favore di una forma-canzone relativamente più immediata e lineare. La selezione dei protagonisti va di conseguenza a concentrarsi su un cast più ristretto, che annovera la presenza di personaggi non sempre familiari all’ambiente metal: oltre alle star Simone Simmons e Ty Tabor, compaiono infatti le meno note Liselotte Hegt (ex-Cirrha Niva, oggi al fianco di Kristoffer Gindelöw nei Dial) e Marian Welman (voce dei rocker fiamminghi Elister), oltre al compositore statunitense Phideaux Xavier e al cantante hip-hop (!) olandese Wudstik. La coerenza rispetto al resto della tracklist è comunque garantita da un songwriting solido e unitario, in piena tradizione Ayreon. Solo una domanda resta dunque in attesa di risposta: saranno i contenuti all’altezza del nome? Quanto vale realmente questa ennesima coppia di dischi? L’unico modo per stabilirlo è inserirli nel lettore e dare inizio al viaggio verso il pianeta 01011001.
“The Age Of Shadows Has Begun”
Dark ages: comunemente, l’età in cui lo sviluppo della cultura si arresta, retrocede, sommerso dalla violenza, dal pregiudizio, dalla forza annichilente dell’irrazionale. O forse, l’età delle grandi conquiste tecnologiche, l’apice del genio scientifico, la libertà dal giogo delle passioni, l’alba della supremazia delle macchine. Tutto è eterno, razionale, asettico. Niente più dolore, niente più patimenti. Tale è lo scenario presentato dalla opener “The Age Of Shadows”. Il duplice chiasmo intessuto dalle rime di Steve Lee e Daniel Gildenlöw annuncia il destino di oblio cui è avvinta la razza dei Forever. Paradossalmente il brano si afferma tra i più facili da memorizzare nell’album, nonostante una durata prossima agli undici primi. Incastonata al suo interno, tra i due blocchi di cori, emerge la sub-track “We Are Forever”, i cui ipnotici sussurri celano la disperata richiesta di aiuto di un popolo ormai privato della propria essenza vitale. Il prezzo dell’immortalità è infatti stato pagato con la moneta dell’emozione. Ne è valsa la pena? O forse la cura si è infine rivelata più letale del morbo? Domande alle quali le contraddittorie “Comatose” e “Liquid Eternity” cercano invano di rispondere, ora con un morbido duetto tra Anneke e Jorn Lande (esaltante l’interpretazione del leone norvegese), ora con un crescendo a più voci costruito sull’intreccio di solisti e archi. Le linee melodiche si mantengono fin qui su coordinate diluite e cullanti, con sbalzi di tensione spesso appena accennati. I toni non cambiano più di tanto nemmeno con “Connecting The Dots”: l’occhio del riflettore si sposta sul pianeta terra e il microfono passa nelle mani del King’s X Ty Tabor. La componente elettronica, finora preponderante, si ridimensiona a favore di armonie meno liquide, più agili e scorrevoli. Permane tuttavia quel senso di sonnolenta stanchezza che già era emerso con i primi brani. Che non ci sia poi tanta differenza tra la sterililità emotiva degli alieni e l’odierna indolenza affettiva degli umani?
“We are dying for tomorrow / We are living for today”
Di nuovo sul pianeta Y. I ricordi fluiscono nella memoria di una razza sull’orlo dell’estinzione psichica: “Beneath The Waves” rievoca con malcelata nostalgia i tempi ormai perduti dei sorrisi e delle lacrime, dell’incertezza e dell’ignoto. Gildenlöw e Catley aprono la via con garbata disinvoltura e il buon Hansi esordisce con un intervento puntuale e deciso che si incastra a metà del climax di intrecci vocali, ma il meglio è riservato al finale, quando il chorus levato ai cieli dall’istrione Lande e da un’ispiratissima Floor Jansen eleva il brano tra le vette compositive del primo atto. È uno dei momenti più felici di un songwriting che non sembra volersi concedere il benché minimo accenno di flessione. “Newborn Race” non delude le aspettative: le armonie elettroniche si dissolvono per lasciare spazio a una componente acustica sempre più determinante e al groove di un versatilissimo Ed Warby, scatenato alle pelli. Dal punto di vista vocale, il pezzo vede la predominanza incontrastata della componente maschile, con estromissione totale del club delle fanciulle. È il momento di prendere una decisione per salvare il futuro di un popolo senz’anima. Un nuovo seme, una nuova speranza viene gettata nel gelo dello spazio infinito, alla ricerca di nuovi mondi da colmare con una vita che possa ritrovare il calore delle emozioni. Ma basterà questo a cambiare le sorti di un popolo condannato dai suoi stessi trionfi? È veramente possibile creare una nuova vita, sostituirsi agli dei, modificare il destino? Saranno i fatti a decidere – il tempo delle domande è finito, è ora il tempo dell’azione. I semi della speranza sfrecciano attraverso le galassie sui cori di “Ride The Comet”, dominati di un incontenibile Hansi (era un pezzo che non lo si sentiva così in forma), mentre una sontuosa Magali Luyten si rende autrice di un break da urlo. La tensione ormai alle stelle viene improvvisamente spezzata da un fin troppo familiare suono informatico: brusco ritorno sul pianeta azzurro, per seguire il romanticismo al silicio di Simone Simmons e Px Xavier. Sterili relazioni nate dietro uno schermo di pc, sentimenti posticci, gusci d’uomo ipnotizzati da un giocattolo multimediale, tanto seducente quanto vacuo e superficiale. E mentre il sipario cala sul primo tempo dell’opera, ancora una volta la domanda si affaccia alle labbra: ne è valsa la pena?
“Through their eyes we will see / With their hands we will create
In their world we will be free / With our minds we’ll shape their fate”
65.000.000 A.C.: un meteorite entra in collisione con un pianeta pronto ad accogliere il seme vitale alieno. La popolazione di giganteschi rettili che ne abita la superficie viene sacrificata in nome del futuro dei Forever. L’incedere apocalittico di “The Fifth Extintion” è un presagio dell’imminente catastrofe: solo il refrain – ancora una volta illuminato dal miglior Hansi – squarcia le soffocanti nubi di tenebra sollevate dal devastante impatto. Il cast torna in scena al gran completo per annunciare l’alba dell’uomo, salutata dall’esuberante solo di Sherinian, culla di una sinfonia di archi fresca e vitale. Passo dopo passo, l’evoluzione della nuova razza viene guidata nelle ombre dall’invisibile intelligenza aliena. Contesa tra i subdoli vocalizzi di Renkse e i luminosi interventi di Anneke, la caliginosa “Waking Dreams” si prepara a tracciare il solco lungo il quale è destinata a procedere la storia degli umani.
Umani: uno di loro ha già visto, sa già come finirà la storia. Nei suoi sogni ha indossato i panni del menestrello cieco Ayreon, è stato testimone della fine del mondo con gli occhi dell’ultimo uomo. Conosce l’autentica natura dei figli della Terra, conosce il loro destino e lo grida al mondo – “The Truth Is Out There”. Ma chi mai prenderebbe sul serio le sue parole? Chi esiterebbe un istante a liquidarle come le farneticazioni di un folle? Invano il visionario Arjen (e chi altri se no?) tenterà di mostrare la verità alla zelante Liselotte – sua custode, infermiera e carceriera – mentre l’arioso flauto di Jeroen Goossens accompagnerà la mente fino ai tempi di “The Final Experiment”.
“Don’t want to live in a world that’s dying / I’d rather die in a world that’s living”
Lentamente l’umanità percorre il suo cammino. Troppo lentamente: fame e malattie la condannano a un’esistenza di sofferenza. Le ritrovate emozioni si sono rivelate un’arma a doppio taglio, e troppo facilmente il dolore ha la meglio sulla felicità. Ma forse esiste una soluzione, forse c’è una via d’uscita. “Unnatural Selection”: accelerare l’evoluzione, rivelare i prodigi della tecnologia, insegnare i segreti della scienza. Basterà? Un pessimista Lee risponde all’accorato appello di Englund: intervenire potrebbe portare la nuova razza sul medesimo cammino di Forever – un errore che non deve essere ripetuto. La previsione tuttavia si rivelerà errata: nei fatti le cose andranno decisamente peggio. Severo e incalzante il botta e risposta fra Catley e Lee accompagna il nichilistico cammino del genere umano, e proprio mentre Hansi e il sempre più inebriante Lande celebrano la straordinaria potenza del suo cuore, l’uomo si appresta a pronunciare con le sue stesse labbra la propria condanna – saranno le ritrovate passioni a condurlo sul sentiero dell’autodistruzione.
Non c’è dunque speranza di salvezza? Invero, una via ancora è rimasta: in un duetto destinato a restare negli annali, Hansi Kürsch e Bob Catley si preparano a giocare l’ultima carta. Invertire il flusso del tempo, tornare nel passato, cambiare la storia prima che il punto di non ritorno sia superato. “River Of Time” riporta alla luce il lato più folk degli Ayreon, sino a sfiorare il garbo romantico delle ballate dei Blind Guardian. Il classico riffing di scuola Lucassen va ad affiancarsi agli evocativi fiati di Goossens, mentre un chorus a due voci rapisce la mente senza troppo alzare i toni. Intanto, qualcuno sulla terra si appresta a tentare l’impossibile. La risoluta Welman e un sorprendente Wudstik proiettano l’ultima, disperata richiesta di aiuto indietro nel tempo, sulle note di “E=MC²”. Accompagnata dalle sei corde di un incantevole Romeo, questa raggiunge a fatica i sogni di un menestrello cieco alla corte di re Artù… Ma noto è l’esito della sua missione.
2085: “The Sixth Extintion”, l’ultimo capitolo della storia del mondo – l’armageddon evocato dagli uomini. Voci di cordoglio commentano impotenti la fine dell’umanità, sentenziata all’unisono dallo screaming furioso di Renkse e dagli apocalittici vocalizzi di Floor Jansen. Tutto è perduto: la fine della Terra è la lezione decisiva per gli abitanti del pianeta Y. Una nuova consapevolezza serpeggia fra il popolo delle stelle – Renkse, Catley, Lee e Gildenlöw si avvicendano al microfono in un cresendo carico di pathos; infine, spetta alle labbra di un sublime Lande pronunciare l’estrema sentenza: si spengano le macchine, è tempo di morire. Joost van den Broek si impossessa dei tasti di avorio e cesella un tumultuoso solo dal quale si libra, fiero e risoluto, l’inno di commiato dei Forever. Tutte le voci si riuniscono per congedarsi dalla vita, mentre un ultimo germoglio di speranza viene affidato allo spirito del vento. Ma questa è un’altra storia… la storia di “The Universal Migrator”.
“Make us whole, Migrator soul / Follow me home, complete the circle”
We must survive, restore our lives / The way I’ll show, complete the circle”
Questo è “01011001”, ultima creatura del demiurgo chiamato Ayreon. Una mera descrizione a parole non potrà mai rendere giustizia alla genuina bellezza di un’opera di tale levatura, e siamo consapevoli dei limiti della nostra esposizione, tanto dal punto di vista formale quanto da quello contenutistico. Lo stile di Lucassen, lo si è detto, non esce dai binari della propria tradizione, ma piuttosto tende a estremizzare alcuni dei propri tratti tipici. Le tastiere in particolare si flettono, soprattutto nella prima parte, verso sonorità elettroniche dai forti accenti psichedelici, propendendo una partenza per così dire in sordina. Al di là della prima traccia, estremamente immediata e persino ridondante, l’incipit non colpisce certo per intensità o veemenza. Il primo disco configura così un progressivo crescendo il quale raggiunge il proprio apice nella concitata “Ride The Comet” – una soluzione di tale sorta potrebbe deludere le aspettative dei più impazienti, cui potrebbero essere necessari molteplici ascolti per lasciarsi coinvolgere da siffatta poetica musicale. Di natura in parte dissimile il secondo disco, decisamente più imprevedibile e irregolare. La componente puramente metal si fa più oscura, le escursioni folk iniziano a proporsi con maggiore insistenza, offrendo sovente un accento epico che – inutile negarlo – non poco deve al buon vecchio Hansi Kürsch. Brani come “The Fifth Extintion”, “Unnatural Selection” e “The Sixth Extintion” attingono al pieno potenziale dell’esercito di fuoriclasse convocati dal provvido Arjen: sarebbe ingiusto premiare una prestazione piuttosto che un’altra, giacché ciascuno degli interpreti aggiunge una scintilla personale e senz’altro decisiva a ogni pezzo, ogni rima, ogni battuta. Maniacale è del resto la dedizione che Lucassen ha riservato a qualsivoglia minima sfumatura – gli arrangiamenti sono pressoché perfetti, gli intrecci vocali di una ricercatezza impressionante, la produzione a dir poco cristallina. Ogni nota, ogni pausa e accento sono al punto giusto. Inutile mostrare come la suddivisione dei due dischi finisca per rispecchiare gli scenari delineati dai testi, in quest’occasione più cruciali che mai. La ricetta è, in fondo, quella di sempre; ma la qualità dei brani, anzi, dell’opera intera, complessivamente intesa, è tale da forzare paragoni impegnativi con le migliori produzioni del compositore olandese. Forse, sulle prime, “01011001” potrebbe essere da qualcuno creduto “un bell’album”. L’invito è a insistere, approfondire gli ascolti, soffermarsi sui dettagli. Solo allora si rivelerà il capolavoro.
“The meaning of life is to give life meaning
Go too fast, move too slow
Restore the balance
Between thinking and feeling
Open up and let it flow”
Riccardo Angelini
The Players:
Vocals – Forever:
Bob Catley (Magnum)
Thomas Englund (Evergrey)
Anneke van Giersbergen (ex-The Gathering, Agua de Annique)
Daniel Gildenlow (Pain of Salvation)
Floor Jansen (After Forever)
Hansi Kursch (Blind Guardian)
Jorn Lande (ex-Masterplan, Ark)
Steve Lee (Gotthard)
Magali Luyten (Virus IV)
Jonas Renkse (Katatonia)
Vocals – Man:
Arjen Anthony Lucassen
Liselotte Hegt (Dial)
Ty Tabor (King’s X)
Simone Simons (Epica)
Marjan Welman (Elister)
Wudstik
Phideaux Xavier
Instrumentalists:
Aryen Lucassen: all electric and acoustic guitars, bass guitars, mandolin, keyboards, synthesisers, Hammond, Solina and backing vocals
Ed Warby (Gorefest): all drums and percussions
Additional keyboards and solos:
Lori Linstruth (Stream of Passion): guitar solo on “Newborn Race”
Derek Sherinian (Planet X): synth solo on “The Fifth Extintion”
Tomas Bodin (The Flower Kings): synth solo on “Waking Dreams”
Michael Romeo (Symphony X): guitar solo on: “E=MC²”
Joost van den Broek (After Forever): synth solo and piano on “The Sixth Extintion”
Other instruments:
Ben Mathot (Dis): all violins
David Faber: all cellos
Jereon Goossens (Flairck): all flutes
Tracklist:
Disc 1 – Y:
1. Age of Shadows [incl. We Are Forever] (10:47)
2. Comatose (4:26)
3. Liquid Eternity (8:10)
4. Connect the Dots (4:13)
5. Beneath the Waves (8:26)
(a) Beneath the Waves
(b) Face the Facts
(c) But a Memory…
(d) World Without Walls
(e) Reality Bleeds
6. Newborn Race (7:49)
(a) The Incentive
(b) The Vision
(c) The Procedure
(d) Another Life
(e) Newborn Race
(f) The Conclusion
7. Ride the Comet (3:29)
8. Web of Lies (2:50)
Disc 2 – Earth:
1. The Fifth Extinction (10:29)
(a) Glimmer of Hope
(b) World of Tomorrow Dreams
(c) Collision Course
(d) From the Ashes
(e) Glimmer of Hope (reprise)
2. Waking Dreams (6:31)
3. The Truth Is In Here (5:12)
4. Unnatural Selection (7:15)
5. River of Time (4:24)
6. E=MC² (5:50)
7. The Sixth Extinction (12:18)
(a) Echoes on the Wind
(b) Radioactive Grave
(c) 2085
(d) To the Planet of Red
(e) Spirit on the Wind
(f) Complete the Circle