Recensione: Resurrection
Indipendentemente dalla forma nella quale un artista comunica, può succedere che la storia non gli abbia concesso l’opportunità di esprimersi completamente, di continuare e magari dare compimento a quanto voleva trasmetterci con la sua arte. È questa l’opportunità che sembra nuovamente concessa ai siciliani Acacia, che tornano a proporci nuova musica, riprendendo il discorso lì dove l’avevano lasciato ben ventitré anni fa, ai tempi del loro esordio Deeper Secrets. Il chitarrista e fondatore Martino Lo Cascio ha infatti ricostruito una nuova line-up coinvolgendo una serie di musicisti di valore, tra cui il singer Gandolfo Ferro, autore di una prova particolarmente espressiva.
Diamo un po’ di coordinate stilistiche: siamo nel pieno di quel metal che ha iniziato a tingersi di prog con eleganza e raffinatezza dalla fine degli anni ‘80 in poi, nei quartieri frequentati per anni da Queensrÿche, Fates Warning, Royal Hunt, Crimson Glory e compagnia cantante. Zone nobili quindi, nelle quali bisogna saperci stare. E magari, ma questa è virtù di pochi, con una certa riconoscibilità. Premettiamolo subito: pur non reinventando la ruota rispetto ai parametri del genere e delle band influenti, l’album stupisce positivamente per maturità e ricercatezza stilistica.
Le danze vengono aperte dall’opener “Obsession”, un’intro che avvia alla visione introspettiva dell’album attraverso una narrazione suadente che rimanda alla teatralità vocale di Roy Khan. Un bel trampolino verso la successiva “Light in Shadows” che spezza l’aura creatasi con un bel riffing e un ritornello che si stampa subito nella mente. Filo conduttore di tutte le canzoni è una elegante ricerca melodica scevra di qualsiasi cervellotica ricerca di inutili tecnicismi. La band sembra muoversi con una sinergia consolidata e lo stesso songwriting è terribilmente bilanciato nell’apporto fornito dai singoli strumenti verso la funzionalità dei brani. Segue “Chains Of Memory” che conferma i toni del pezzo precedente e i richiami alle band seminali succitate. Grande cura e maniacalità negli arrangiamenti in “The Age of Glory”, brano coronato da un solo di chitarra ricco di pathos.
Piacciano o meno, si capisce già che la band ha le idee chiare, non c’è spazio per nessuna confusione o sfocatura. Nella ballad “Alone” la voce torna a farsi intima, appassionata e sentimentale senza che il brano risulti stucchevole e mieloso. Pur senza grandi acuti l’album prosegue gradevole, ben composto e suonato nelle successive “Revelation Day” e “My Dark Side”, che hanno come peccato veniale quello di non innovare la formula proposta nella prima parte del disco. “Seasons end” è un lento roccioso in odore di Savatage, mentre la quasi AOR “Gone Away” prepara il campo alla conclusiva “The Man”, forse il brano più enfatico e monumentale del platter, giusta chiusura di questo concept introspettivo.
Difetti? Una produzione che, seppur buona, non aiuta ad attualizzare la proposta musicale e una certa ridondanza compositiva nella seconda parte del disco. Al di fuori di questo, il loro vino è invecchiato alla grande: ne venissero stappate più spesso di bottiglie così… Lunga (nuova) vita agli Acacia dunque!