Recensione: Terrestrials
Cos’è che fa di un album, un album drone? Determinati parametri si impegnano a definirlo: suoni estesi e ripetuti (cluster), variazioni minime, canzoni che non durano meno di 7 minuti, …
Eppure per me vi è qualcosa di diverso che lo caratterizza, e si trova nell’intenzione, nella volontà di esprimere un’emozione un po’ sorda, indefinibile a parole, difficilmente traducibile in generale. Bisogna sentire e sentirsi, immagazzinare tutta una serie di sentimenti, organizzarli e poi rilasciarli piano piano, uno dopo l’altro, accostando ad ognuno di esso un suono, un impercettibile rumore o soffio di nota.
“Terrestrials”, album collaborativo di due band, Sunn O))) e Ulver, il cui accostamento genera una servile intimidazione, si presenta come un disco dalle intime riflessioni; principalmente strumentale, esso si svolge su tre brani, una sorta di improvvisazione (come lo stesso Stephen O’Malley dei Sunn O))) ha ammesso) che si scongela lentamente, livello dopo livello, e che inizia con “Let There Be Light”, stella lontana, dal pulsare luminoso e impercettibilmente vago. Campi magnetici sembrano cercare un contatto senza mai incontrarsi e tutto resta nell’aria, fermo, insensibile allo scorrere del tempo; una batteria entra appena al minuto 8.23, per trasformare l’indefinito in caos. Una scarica di energia dalle fredde atmosfere di un jazzista impazzito.
Segue “Western Horn”, ed un vento si risveglia lentamente, incalzato da un pulsare lontano, un rituale a metà tra una setta satanica ed un rito sciamanico; qui la sonorità dei Sunn O))) cerca di fuoriuscire maggiormente, ma tutto resta ben equilibrato, bilanciato dai mantra evocativi degli Ulver, in un perpetuo gioco di luci e ombre, sacro e profano, monoteistico e pagano, un senso di rispetto reciproco tra due forze emotive sul filo della dissoluzione. Ancora nessun climax, solo un continuo divenire di qualcosa che non riusciamo a definire, un caos calmo, un’involuzione emotiva, un costante ritorno alla sfera interiore e latente dei nostri sogni/incubi.
C’è infine “Eternal Return”, che già nel titolo determina il suo non confine, come di tutto l’album in sé. Unico brano con voce, esso si sviluppa in modo più strutturato dei precedenti, con una parte più evocativa e onirica all’inizio che sfocia poi in un requiem dai rossi veli, guida delle dolci curve di un deserto silente e dimenticato. Difficile spiegare a parole le emozioni che può suscitare quello che nel mio sentire è il moto naturale delle anime di due mondi inafferrabili posti uno di fronte all’altro. Questo brano va vissuto con tutti i sensi e con umile sensibilità.
“Terrestrials” è un album che non saprei bene a chi consigliare; forse un ascoltatore incallito di drone lo troverebbe un po’ ‘già sentito’, mentre un novizio del genere potrebbe trovarlo addirittura ‘privo di appeal’. Io penso invece che è un album da ascoltare e giudicare soggettivamente, senza alcun filtro preliminare. Forse non è un disco fondamentale all’interno della vasta produzione di queste due band, ma potrebbe diventare qualcosa per qualcun altro. Per me lo è stato.
Ineffabile