Recensione: 12 Winter Moons Comes The Witches Brew
“L’ispirazione per questo album è arrivata direttamente dal passato antico e sconosciuto dell’umanità e dalla sua connessione con la Terra e il Cosmo .La fonte primaria sono stati gli insegnamenti di Ermete Trismegisto e il suo percorso verso l’illuminazione. Questo è un capitolo importante nell’evoluzione degli Arkheth come entità che cerca continuamente una conoscenza più profonda e una connessione con il Cosmo.”
Con queste parole la band ci introduce al nuovo “12 Winter Moons Comes The Witches Brew”, disco che consegna cinque lunghe tracce di black metal sperimentale studiato per impressionare fans di realtà come Oranssi Pazuzu, Sigh, Emperor, Arcturus, e Ihsahn.
Gli Arkheth sono un duo australiano composto da Tyrone ‘Tyraenos’ Kostitch, che si occupa delle parti vocali e suona tutti gli strumenti, supportato da Glen Wholohan al sassofono, la loro musica è sinuosa, ossessionante e bizzarra. Una fusione di elementi e stili che rende l’andamento contorto ma affascinante, discordante ma denso di melodia.
Già l’iniziale ‘Trismegistus’ pone l’ascoltatore al cospetto di un discorso musicale che esonda oltre i limiti del genere. Una intro atmosferica che fa da preludio al riff dissonante, alla batteria furiosa, dove la matrice black è chiara e rappresentata anche dallo scream gracchiante di Tyrone. Ma poi il blastbeat si spezza e gli Arkheth si inoltrano in una complessa struttura fusion con l’intervento del sax ad aggiungere colori e follia. Ne esce poi una parte arpeggiata, con la voce da corvo di Tyrone che si fa declamatoria, un sottostrato di samples dove si ode un monologo sofferente, e la chiusura dal bel riff pregno di pathos tragico.
Dopo la prima traccia quindi è subito chiaro come “12 Winter Moons Comes The Witches Brew” non possa essere una proposta alla portata di tutti, ma gli amanti del black metal più d’avanguardia si saranno già piegati per concentrarsi sull’ascolto. L’ottima ‘Dark Energy Equilibrium’ nei suoi oltre undici minuti ammalia grazie a un ritmo sincopato, tra arpeggi sinistri, strati di pianoforte, il sax che puntella con maggior grazia, la voce che sussurra lungamente le strofe prima prima di tornare allo scream spettrale. Da notare la capacità di Tyrone Kostitch di impostare alla batteria un tappeto ritmico che non esprime una tecnica impegnativa ma risulta estremamente significativo all’interno delle tracce. Come nel numero precedente, anche il secondo momento dell’album si chiude con una coda dai toni intensi, dove il sax si ritaglia un altro ottimo inserto solista prima di alcuni effetti spaziali.
L’atmosfera cosmica e misterica cui gli Arkheth tendono viene catturata e proposta nella giusta maniera, con una produzione attenta a valorizzare le molte sfumature. Un ululato apre ‘Where Nameless Ghouls Weep’ e seguiamo i latrati dei lupi che si intrecciano al riff “stonato”, qualcosa che ricorda addirittura i Queens Of The Stone Age del primo album. La voce si trasforma, abbandona lo scream per improntarsi su una cadenza stregonesca, una sorta di Rob Zombie riverberato per una traccia dai toni horror, grazie anche all’uso di sinistre tastiere, crepiti di fulmini, e gorghi di sax. Black, stoner, horror, atmosfera sacramentale, il miglior riff dell’album, cadenzato e poderoso… gli Arkheth tirano fuori una traccia quasi inverosimile nella sua elegante sperimentazione.
‘The Fool Who Persists In His Folly’ descrive già dal titolo la natura del brano. Il sax irrompe frenetico in quella che è una composizione circense, vicina a Devin Townsend per imprevedibilità. Lo scream viene quasi sormontato da una strana voce semi-lirica che sembra provenire da qualche profondità astrale, e c’è sempre Glen Wholohan a dimostrarsi elemento importante con un bel intervento di sassofono ad accompagnare il finale della canzone.
Rumori di pioggia introducono all’ultima ‘A Place Under The Sun’, momento catartico che chiude il processo dell’album con una scia sinfonica e un crescendo dal sapore post metal, una voce profonda e recitante che poi intona un canto melanconico dal sapore nordico, e l’andamento arpeggiato che rinuncia a qualsiasi forma di furia tranne in un breve pattern sul finale, prima di concedere una via d’uscita ricca di patos tra pianoforte e sax.
Definire black metal “12 Winter Moons Comes The Witches Brew” è quindi molto riduttivo, bisogna rifarsi in toto al termine sperimentale perché è quello che rappresenta al meglio gli Arkheth con tutte le loro sfumature. Tanti elementi combinati insieme con sapienza e la giusta capacità artistica, in tracce che sono lunghe ma scorrono senza annoiare un solo secondo tanto sono piene e ben strutturate. Chi ascolta l’avantgarde, chi si ciba di realtà dall’apparenza aliena ma pieni di contenuti sonori intriganti quali appunto Arcturus e Sigh, oltre al più controllato e ovviamente dotato Ihsahn, metta pure mano su questo album, gli Arkheth più di un ascolto attento.