Recensione: – 13 –
“Born Under A Bad Sign”. Poteva essere tranquillamente questo il (sotto) titolo di “13”, diciannovesimo (ventesimo se consideriamo “The Devil You Know”, targato Heaven & Hell) album da studio dei Black Sabbath, come recitava un ‘vecchio’ adagio blues di Albert King. Brano che dava il titolo ad un album del 1967 che guarda caso in copertina sfoggiava proprio il numero tredici (come nel caso del combo di Birmingham), notoriamente sfortunato nella tradizione anglosassone. Tuttavia, se per il cantante/chitarrista americano quel brano, e quell’album, furono forieri di grande successo e riconoscimenti a livello planetario – tanto da essere coverizzato da artisti di assoluto rilievo come Cream, Hendrix, Paul Rodgers e Pat Travers, tra gli altri –, lo stesso non si può dire di questo ultimo lavoro dei Sabbath.
Se ancora non ci è dato di sapere quelli che saranno i dati di vendita (invero piuttosto incoraggianti), non si può fare a meno di sottolineare quanto questa agognata reunion sia stata baciata dalla cattiva sorte fin da principio. A poche settimane dall’annuncio ufficiale, infatti, è arrivata la prima tegola per l’uscita di scena di Bill Ward legata a problemi contrattuali ed economici, come ha affermato immediatamente lo stesso Ward, ma derivante anche dall’impossibilità attuale del batterista a reggere un concerto per intero all’interno di un tour, come dichiarato da Ozzy recentemente. Ma il peggio doveva ancora arrivare, con il tragico annuncio che Tony Iommi aveva un linfoma da operare e monitorare costantemente, con il conseguente annullamento delle date già programmate e rimpiazzate da un discutibile “Ozzy & Friends” (anch’esso funestato da vari problemi, come la drastica riduzione della scaletta all’Hellfest per una tremenda pioggia a vento e l’annullamento della successiva data in Germania a pochi minuti dall’esibizione). Se da un lato l’uscita di Ward era da mettere in conto così come le mire megalomani di Ozzy (e compagna), dall’altro la situazione di Iommi era molto più preoccupante. Anche perché i Black Sabbath sono incontrovertibilmente la creatura del chitarrista mancino, di colui che nei decenni è stata l’unica costante e che da sempre garantisce con i suoi riff il trademark del gruppo. Perciò, dispiace per la mancanza di Ward, ma tanto per tagliare la testa al toro sulla questione economica, l’unico che può accampare i maggiori diritti è lui e solo lui. In fondo se guardiamo al tentativo di reunion avvenuto ormai quindici anni fa, anche in quell’occasione saltò la partecipazione di Ward (come ricorderanno tutte le persone accorse all’edizione del ’98 del Gods Of Metal) e se non si arrivò mai alla stesura paventata di un nuovo album fu con buona probabilità per colpa di Ozzy che decise di tornare negli States per riprendere l’attività solista. Perfino il più fedele scudiero di Iommi, Geezer Butler, non è rimasto sempre e comunque al suo fianco. Nonostante tutte le difficoltà, però, Il riffmaker è riuscito a portare a termine il lavoro, perciò lasciamo da parte questioni non direttamente verificabili, che in fondo non ci competono, e concentriamoci solo su quello che “13” ha da offrire.
Un album che ci riporta direttamente agli anni d’oro del gruppo, stilisticamente, caratterizzato da quel ‘proto-heavy/doom’ esoterico e nero come la pece e quel tocco che li rende immediatamente riconoscibili tra mille altri gruppi, rendendoli celebri in ogni angolo del globo. Una volontà di riprendere certe atmosfere riscontrabile anche nella produzione dal fascino retrò alla quale hanno lavorato personalità di tutto rispetto come Rick Rubin, Stephen Marcussen e Greg Fidelman, tra gli altri. Basta pigiare il tasto play e far scorrere una manciata di note di “End Of The Beginning” per venire catapultati indietro nel continuum spazio-temporale. Così come nel caso di “God Is Dead?”, si tratta di un brano molto lungo dato che superano entrambi gli otto minuti. Questo però non è un problema in sé, in fondo quando una traccia è ben fatta e strutturata in modo da non avere solo uno/due riff ripetuti fino allo sfinimento (come fanno talvolta alcuni gruppi doom che da sempre si ispirano ai Maestri) ma si evolve e muta pelle, i minuti scorrono via senza rendersene conto. Il problema, semmai, in questi due casi è un eccesso di autoreferenzialità, tra espliciti rimandi a “Black Sabbath” e “Wheels Of Confusion”, per esempio, e una certa carenza in termini di verve e di cattiveria che da sempre sono per loro condizione essenziale. Ciò non toglie però che dal punto di vista compositivo, molti giovani gruppi abbiano ancora molto da imparare da questi ‘vecchietti’, anche quando questi ultimi devono far ricorso a tutta la propria esperienza, non potendo più contare sulla propria grinta giovanile. Anche solo per il fatto di aver inserito otto tracce (mettendo da parte le varie edizioni deluxe e best buy), un po’ più articolate rispetto agli standard odierni, invece delle ‘inutili’ dodici/tredici a cui ultimamente siamo abituati. Non sono però riusciti a scongiurare del tutto la presenza di filler, dato che “Loner”, con quel piatto ritornello in stile “Sabbath Bloody Sabbath” e un’attitudine un po’ troppo easy, ci va molto vicina. A ciò contribuisce un drumming non eccezionale, in questi primi episodi, di Brad Wilk, che qui sembra quasi limitarsi all’accompagnamento. Si passa poi a “Zeitgeist”, un brano piacevole, se si mette da parte la somiglianza spudorata con la ‘versione originale’ (“Planet Caravan”), che chiude senza troppo esaltare una prima parte di album che lascia un po’ di amaro in bocca per quelle che erano le aspettative.
Netto, invece, il cambio di passo nella seconda metà, a partire proprio da “Age Of Reason” con un Ozzy decisamente più a suo agio. Sappiamo tutti dei suoi grossi limiti a cantare dal vivo, sin dal finire dei Settanta per problemi polmonari, ma su disco riesce ancora a difendersi, grazie anche alla migliore tecnologia a disposizione, probabilmente. Anche il riffing work di Iommi si fa più ispirato, oltre che dannatamente cupo e ossessivo. Magistrale l’impennata che ha il brano circa a metà, con un cambio di tempo che fa dell’imprevedibilità la sua arma migliore, regalandoci una piena dimostrazione dell’assoluta bontà della sezione ritmica, con un Butler sugli scudi e Wilk che finalmente riesce a non far rimpiangere la mancanza di Bill Ward ed il suo stile sporco e impreciso, eppure irresistibilmente trascinante. Riff senz’altro magnetico, quello che caratterizza “Live Forever”, unito ad un buon ritornello che si imprime in mente immediatamente, fanno sì che i Nostri riescano a mettere a segno un altro colpo ben assestato. I brani più azzeccati, però, arrivano proprio in chiusura, con il blues elettrico dell’avvincente “Damaged Soul”, nella quale fa capolino una armonica mai troppo invadente, e “Dear Father” che si candida come il brano più cattivo del lotto, forte di una serie di riff tra i più malvagi che Iommi abbia composto negli ultimi anni, assecondato perfettamente da un determinante Osbourne che sembra quasi recitare le sue ultime volontà nel refrain. Ottima la struttura in crescendo, sottolineata ancora una volta ad alti livelli da Butler e Wilk, che ci traghetta fino al finale con tanto di pioggia e tuoni che riprendono pari pari l’incipit di “Black Sabbath”, chiudendo il cerchio su questa loro ultima fatica (e sulla loro carriera?).
Non è mai stato facile parlare dei Black Sabbath dovendo analizzare con occhio critico, e quindi distaccato, la loro ultima prova da studio, ieri come oggi. È sempre stato così (anche solo ad inquadrare la loro proposta in un genere preciso), fin da prima che Ozzy Osbourne si trasferisse negli States per dedicarsi alla carriera solista. Specie per chi li considera il più importante e influente gruppo heavy metal della Storia, per il fondamentale contributo alla nascita dello stesso. Perché se è vero che anche Blue Cheer, Led Zeppelin e Deep Purple vengono considerati tra i pionieri del genere, senza dimenticare l’apporto dei vari High Tide, Sir Lord Baltimore, Dust e Blue Öyster Cult, nessuno prima di loro aveva portato la musica tanto vicina a quelle sonorità che successivamente i loro compaesani Judas Priest e quelli che poi diventeranno il gruppo HM per eccellenza, ovvero gli Iron Maiden, contribuiranno a definire (senza dimenticare anche i fondamentali Motörhead, prima, e Saxon, poi). Un gruppo che mai ha seguito il trend del momento, anzi, talvolta è stato determinante nello spingere i mercati in una certa direzione, come solo i più Grandi sono riusciti a fare. Quel che è certo è che i Black Sabbath tuttora fanno quello che gli riesce meglio e continuano coerentemente a proporre la loro musica, nei limiti delle loro possibilità attuali, senza badare alle mode o innovazioni di sorta. Puoi mettere una canzone qualsiasi in un punto a caso e avrai la certezza matematica di quale gruppo si abbia di fronte, una qualità che, pensateci bene, quanti altri possono vantare? Il loro sound è quello e di lì non si sono spostati neanche di una virgola, non devono più dimostrare niente a nessuno, perciò prendere o lasciare.
Mai come in questo caso la valutazione numerica, perciò, mette a nudo tutti i suoi limiti, per cui se avete accettato il fatto che dall’esordio siano passati ormai più di quarant’anni, che i britannici non siano più dei ragazzini e che nelle condizioni in cui versa Tony Iommi è quasi un miracolo siano riusciti a completare questo lavoro e da loro non vi aspettavate niente di diverso, oppure viceversa se vi aspettavate un album in grande stile come poteva essere “The Devil You Know”, se siete fermamente convinti che lo abbiano fatto solo ed esclusivamente per soldi, se la loro musica non riesce più ad emozionarvi e così via, aggiungete o togliete pure quei 5/10 punti alla valutazione finale e state pur certi che non farete torto a nessuno e non cambierà assolutamente la sostanza di cui è composto questo “13”. Un album che in ogni caso suona, ahimè, come l’addio di Iommi alla musica suonata, il suo testamento musicale come anima dei Black Sabbath.
Orso “Orso80” Comellini
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