Recensione: “2”
Dei Black Country Communion, dopo il notevole esordio discografico del 2010, sappiamo ormai più o meno tutto, dal pedigree dei componenti, alle origini “geografiche” di un monicker così imponente ed evocativo fino a quello che è lecito attendersi essere il contenuto del nuovo lavoro. Inutile quindi perdere tempo narrando fatti sconosciuti solo a chi ha vissuto gli ultimi due anni su Marte e meglio, piuttosto, partire con l’analisi dell’album in cerca di conferme e di qualche gradita sorpresa.
“The Outsider” ripropone lo schema tipico del brano d’apertura a tutta birra, breve e urgente, seppur forse non incisivo come quella “Black Country” che apriva le danze nel debutto. La canzone strumentalmente mantiene le coordinate di un hard rock fortemente 70’s inspired, irrobustito come sempre da una chitarra dal suono vigoroso e possente, in cui emergono con maggiore influenza di volta in volta il blues o il funk, dato peraltro non certo sorprendente considerando chi vi è dietro alla composizione di questi pezzi. Le fughe strumentali a base di frenetiche rincorse tra chitarra ed hammond sono tipico retaggio di deep-purpleiana memoria, il resto lo fanno i vocalizzi di un Gleen Hughes sempre molto in parte, seppur qui più che mai “segnato” nella voce dagli anni che passano e non fanno sconti a nessuno.
“Man In The Middle” ha un (altro) bel riffone tipicamente anni ’70 e un andamento molto tirato, a metà tra funk e hard rock in cui Glenn torna a esprimersi su buoni livelli, mentre la successiva “The Battle For Hadrian’s Wall” fa il verso ai Thunder più acustici e “rurali”, (a loro volta debitori dei Led Zeppelin) e, non a caso, al microfono troviamo Joe Bonamassa, sicuramente il più adatto tra i due protagonisti a ricalcare, per affinità di timbro, lo stile vocale di Danny Bowes.
Con “Save Me”, Bonamassa & Co. giocano la carta del brano lungo costruito su un riff imponente che si ripropone tanto in primo piano quanto in sottofondo durante assoli e strofe lungo tutta la durata; nelle intenzioni un equivalente della “Song Of Yesterday” che tanto aveva impressionato sul precedente lavoro: atmosfere questa volta vagamente “kashmiriane”, ritornello ben riuscito, strofe talvolta in voce filtrata e una valanga di assoli nello stile dell’ultimo John Norum. Di nuovo, non propriamente di primissima mano ma in ogni caso sempre piacevole e ben riuscita.
Un po’ di stanchezza compositiva si avverte nella successiva “Smokestack Woman”, riff e refrain che odorano di già sentito lontano un miglio (Deep Purple, primi Whitesnake), molto mestiere e troppa ripetitività. Non da buttare ma si tratta di un episodio meno ispirato rispetto a quanto proposto finora. Meglio, viceversa, “Faithless” provvista di un attacco che fa molto Free e di un tema melodico che rimanda agli ultimi lavori solisti di Glenn Hughes, suggestioni mistico-orientaleggianti comprese.
“An Ordinary Son” è un buon blues rock che si avvale in maniera molto positiva dell’alternanza delle due voci, uno degli elementi più caratteristici del primo album e qui, purtroppo, meno sfruttata. Di nuovo giù invece con la noiosissima “I Can See Your Spirit”. La padronanza c’è (e ci mancherebbe) e ormai l’hanno capito tutti che i BCC adorano Deep Purple, Led Zeppelin e compagnia hardbluesettara, tuttavia questa canzone lo ribadisce ancora e ancora e ancora, tributando (scopiazzando?) in maniera decisamente troppo sfacciata e priva di guizzi per non ingenerare fastidio. L’assolo inutilmente veloce e tecnico, del comunque bravo Joe Bonamassa, è lo specchio della mancanza di ispirazione e sentimento che affliggono questo brano.
Il blues più notturno e patinato fa capolino in “Little Secret”, a metà tra l’ennesima riproposizione sotto mentite spoglie dell’immortale “Since I’ve Been Loving You” e una sorta di omaggio al compianto Gary Moore, con Glenn Hughes che alterna linee vocali nello stile del rocker irlandese al suo tipico cantato, mentre Bonamassa dimostra una volta in più di aver fatto propria la lezione di brani come “Midnight Blues” e “As the Years Go Passing By”.
“Crossfire” è un pezzo a metà tra blues e funk, eseguito con dovizia ma privo di un qualche tratto caratteristico di spicco, per fortuna l’ottima “Cold” evita l’imbarazzo di una chiusura agrodolce: trattasi di fatto di un altro slow blues, seppure interpretato in maniera molto più personale e sentita sia da Bonamassa che, soprattutto, dal miglior Glenn Hughes fin qui ascoltato.
Come intuibile il disco è sostanzialmente irreprensibile dal punto di vista formale, i musicisti coinvolti sono cavalli di razza di talento indiscutibile e le doti dei singoli si vedono e si sentono. C’è esperienza, c’è (spesso) cuore, c’è tecnica e c’è una profonda conoscenza della materia.
Quello che alla lunga risulta il punto debole (e che é di fatto una diretta conseguenza di quanto appena asserito) è il sostanziale riciclo di idee. Qua e là ci si rifà di volta in volta ai Deep Purple o ai Free, con lo spettro degli Zeppelin che aleggia sinistramente in ogni singolo passaggio: ciò che sta alla sensibilità e al gusto dell’ascoltatore è interpretare questo atteggiamento di Hughes, Sherinian e compagnia come reale devozione ad un sound e ad un’epoca, oppure come scelta dettata (anche) da opportunismo, per accattivarsi le simpatie di fan che sanno cosa vogliono e sanno cosa troveranno in un disco dei BCC ancor prima di acquistarlo.
Ne più, né meno, come si diceva all’inizio.
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Tracklist:
01 The Outsider
02 Man In The Middle
03 The Battle For Hadrian’s Wall
04 Save Me
05 Smokestack Woman
06 Faithless
07 An Ordinary Son
08 I Can See Your Spirit
09 Little Secret
10 Crossfire
11 Cold
Line Up:
Glenn Hughes – Voce e Basso
Joe Bonamassa – Voce e chitarra
Derek Sherinian – Tastiere
Jason Bonham – Batteria