Recensione: “26”
Lasciatevelo dire, questi Kzohh sono davvero dei pazzi scatenati, dei fuori di testa come pochi.
Non sappiamo davvero cosa passi per la testa di questi 5 scoppiati ucraini ma, come ben si sa, il confine tra pazzia e genialità è davvero molto labile, bisogna solo capire da che parte la lancetta tende maggiormente anche se, pure in questo caso, il valore soggettivo ha una grande importanza.
I Kzohh (nome impronunciabile formato dalle iniziali dei cinque membri della band) sono una di quelle classiche band che per outfit, liriche, strutture compositive a base di tremolo, rabbia e chi più ne ha più ne metta, possono essere individuati come “black metal” ma le virgolette sono obbligatorie.
Formatisi nel 2014 arrivano con questo nuovissimo 26 al loro quarto album, o meglio, al loro quarto parto folle e malsano.
Nella loro discografia passata si possono maggiormente individuare delle strutture che, pur se complesse e articolate, risultano mai banali e scontate con fortissime tendenze all’ ambient – atmospheric e con stilemi ben più ancorati al black puro e crudo violento e incivile; per questo 26 il discorso si evolve ulteriormente.
Abbiamo tra le mani un lavoro che si compone esclusivamente di due lunghe tracce che si articolano in sentieri disperati, vorticosi, malati e ipnotici per 22 e 17 minuti, pertanto capiamo bene che non si tratta di quel classico album da mettere in macchina e fischiettare mentre si va dalla propria fidanzatina anche perché, se così fate, la vostra fidanzatina, una volta giunti a destinazione vedrà davanti a se una persona stralunata e completamente trasportata dalle “melodie” perverse di questi pazzi col cappio al collo (l’outfit live oltre avere drappi neri stracciati addosso come tuniche comprende maschere e cappi al collo, confermando che questi ragazzi han davvero una marcia in più per quel che riguarda la follia).
La prima song è intitolata 51°23’20N,30°6’38E, ossia le coordinate geografiche di latitudine e longitudine che, se riportate su un banale Google Earth, vi porteranno a Chernobyl, più precisamente nella centrale nucleare dove nel 1986 ci fu l’incidente che viene ricordato come il “disastro di Chernobyl”, una delle pagine più tragiche ucraina e mondiale; la più grande nella storia dell’energia nucleare, sia in termini di numero di persone uccise non solo al momento dell’ incidente stesso ma negli anni successivi con danni a tutto il sistema ambientale locale e circondario.
Ventidue minuti di viaggio malato che ci trasporta in un ambientazione apocalittica con i suoi passaggi progressivi, atmosferici e lunghe parti strumentali inframezzati da elementi elettronici, synth e voci prese da report televisivi che annunciavano le vicende drammatiche di quei giorni d’aprile 1986. Solo verso la fine di questi lunghi e estenuanti venti minuti si intravede una struttura metal nel senso stretto della parola con doppia cassa che trascina l’ ascoltatore a bruciare tra le fiamme, la fuliggine e il bitume.
61°45’17N,59°27’46E invece sono le coordinate che ci riportano direttamente sui monti Urali, più precisamente sul monte Cholatčachl’. Leggenda narra che il giorno 26 febbraio 1959 nove corpi che appartenevano a un gruppo di escursionisti guidati da Igor Dyatlov (dal quale successivamente quel passo montano prenderà poi il nome), furono trovati morti in circostanze assurde. Chi fece le indagini all’epoca stabilì che gli escursionisti avevano lacerato la loro tenda dall’interno, correndo via a piedi nudi nella neve alta e con una temperatura esterna proibitiva (probabilmente attorno ai −30 °C). Sebbene i corpi non mostrassero segni esteriori di lotta, due delle vittime avevano il cranio fratturato, due avevano le costole rotte e a una mancava la lingua. Sui loro vestiti fu riscontrato un elevato livello di radioattività; altre fonti invece ridimensionano fortemente la contaminazione degli abiti, datandola anteriormente alla spedizione (fonte wikipedia).
Compositivamente parlando il brano è più strettamente “metal” rispetto al precedente ma pure in questo caso i Kzohh, con malsana maestria e follia, riescono a trasportare in una dimensione del tutto innaturale e da incubo; le sferzate di matrice black con blast lanciati a mille si alternano sapientemente con synth che danno ariosità alla composizione che con l’incedere diventa sempre più articolata e malata. Il respiro affannato di una escursionista interrompe il massacro sonoro per poi far riprendere il tutto con un passaggio progressive accompagnato dalla voce lacerante di Khorus che racconta la terribile vicenda aliena grondante sangue e mistero dissolvendosi tra incubo, ghiaccio e morte.
In definitiva un lavoro tanto complesso quanto affascinante ma non per tutti, da ascoltare seduti, a luci soffuse, una maschera antigas e la predisposizione ad un immaginario malato, perverso, depresso e allucinante dove i Kzohh ti porteranno senza più farti tornare.