Recensione: + 4626 – Comfort Zone
Mi prenderebbe un colpo se la Inside Out non iniziasse l’anno col botto. Accade ormai per la terza volta di fila, come minimo. Era successo nel 2013 quando i Riverside avevano dato alle stampe il più sorprendente tra i loro dischi, il brumoso, introspettivo Shrine of New generation slaves, probabilmente il miglior disco della band polacca, almeno a parere di chi scrive. Lo scorso anno aveva visto invece il ritorno dei Transatlantic ad altissimi livelli con Kaleidoscope. Livelli che, sempre a parere di chi scrive, sembravano ormai miraggi lontani dopo il farraginoso Whirlwind.
L’apertura di questo 2015 invece viene affidata dall’etichetta tedesca ad un altro dei suoi nomi di punta. E ancora, una band più in forma che mai, sebbene, sembrando sempre umile e schiva, ha ormai raggiunto il nono disco. Non lo si direbbe, visto che fino a poco fa venivano costantemente citati come next big thing del prog scandinavo. Ed effettivamente si tratta ancora di una band giovane, dato che questo popò di discografia è distribuito in soli dodici anni di carriera.
Sì, avete capito, stiamo parlando dei figli dei Cam… ehm, si sta parlando dei Beardfish. Quei Beardfish che ci avevano lasciato un biennio addietro con lo schizofrenico The Void, invero il loro disco più eclettico e sincopato. Dondolava come se nulla fosse tra un apertura ai margini del death e sviluppi ulteriori che aggiungevano toni sempre più jazzistici e ricchi di inserti disarmonici (chi ha nominato The note?). Un disco che aveva colpito nel profondo, eppure era parso, a tratti, voler strafare, senza capire quale fosse la giusta direzione.
Con questo nuovo arrivato, dall’enigmatico titolo +4626-Comfort Zone, le carte in tavola tornano ad essere decisamente più intellegibili. Titolo escluso, ovviamente. Vi è un leggero passo indietro sul piano della creatività folle, che si attesta su tonalità simili a quelle dell’inarrivato Mammoth, in ogni caso meglio strutturate ed approfondite. Indipendentemente da un apripista elettrico come Hold on, l’album prende quota sulle ali del riff malinconico della title track, 9 minuti di rara malinconia in tempi dispari. I seventies fuoriescono da ogni dove, salvo poi cedere il passo ai sixties in un pezzo come Can You see me now. E il disco va avantio così, fra episodi più tirati ed altri più soffusi, come da tradizione per gli svedesi, che in questo album sembrano volersi concentrare sui problemi ed i pregiudizi legati dal vivere in un paese piccolo, pieno di gente dalla mente piccola.
Il disco infatti nasconde tra le sue pieghe un concept fatto di malinconia, illusioni e conseguenti delusioni, come possono denotare titoli quali Daughter / Whore e soprattutto Ode to the Rock’n’Roller, che assieme a Comfort zone costituisce il vertice artistico e tematico. In questo caso ci troviamo di fronte ad un viaggio di buoni 15 minuti, una suite nel senso più classico del termine, di quelle in cui capisci subito dove finisce una parte e ne inizia un’altra. E molte delle varie parti, prese singolarmente, sono comunque dei pezzoni. A cominciare dall’incipit malinconico e dalla divagazione acida all’altezza del settimo minuto, momenti di allucinazione razionale purissima.
+4642-Comfort zone richiama alla mente in modo piuttosto immediato Mammoth. Sarà per le tastiere immanenti, o per i giri di chitarra elettrici, chi può dirlo? Fatto sta che a ben ascoltare le differenze sono profonde. Decisamente meno immediato e graffiante, molto più strutturato. E sebbene sia pervaso da atmosfere omogenee, questo album risulta difficile da metabolizzare all’inizio, escludendo le prime tre tracce e la penultima, gioiosissima If we must fall apart, altro momento doc. Ciò nonostante quest’album pian piano si rivela come l’ennesimo bijou di un gruppo che ormai si è lasciato dietro le gobbe dell’animale citato in apertura e può definitivamente ergersi a pilastro del prog svedese.
Sontuoso.