Recensione: 5150
Dopo un triennio sabbatico causato dalla dipartita dal gruppo dello storico vocalist David Lee Roth, i Van Halen tornano alla carica nel 1986 con la loro settima fatica in studio, intitolata 5150. Questo disco alla prova dei fatti si dimostra un vero e proprio spartiacque nella carriera del quartetto statunitense : se infatti “1984”, nonostante la sua evidente diversità, era stato accettato ed osannato da praticamente tutti, 5150 spaccò in parte i fans del gruppo. Per alcuni infatti questo disco rappresenta il primo vero passo falso della band, cosa causata da diversi fattori (non ultimo il cambio del vocalist) mentre per altri (me in parte incluso) si tratta di un ottimo lavoro, che regge il confronto con buona parte delle opere del primo lustro Vanhaleniano. Ma procediamo per piccoli passi e torniamo indietro. Dopo l’abbandono di Diamond Dave, la band si buttò alla ricerca di un nuovo singer che potesse quantomeno tentare di emulare le imprese del suo illustre e carismatico predecessore. Dopo varie ricerche, i due fratelli Van Halen e Michel Anthony individuarono quest’individuo in Sammy Hagar, la quale voce, si sentirà sul disco, è tutto sommato non male per lo stile della combo. Le sonorità invece ripercorrono in parte quelle di 1984, quindi con uso anche piuttosto pesante di synth e strumentazione elettronica. Bisogna comunque dire che non mancano le tracce vecchio stile, dove infuria un Eddie van Halen in stato di grazia tecnica assoluta. A dire il vero, se prendiamo 5150 da un mero punto di vista esecutivo, è sicuramente uno dei migliori prodotti del quartetto, purtroppo però a fare da contraltare c’è la vena ispirativa, che se in alcune canzoni è completamente azzeccata, in altre lascia piuttosto a desiderare. Il risultato di questa discontinuità è appunto un platter piuttosto frammentato, con dei momenti davvero ottimi antecedenti parti decisamente meno godibili. Affrontiamo dunque insieme questo percorso colmo di fossi e di picchi. La prima canzone, introdotta dal saluto del nostro Sammy ai suoi nuovi fans (un “hello babe”), è l’ottima “Good Enough”, traccia che ricorda davvero quelle di un lustro prima. Tastiere ed altro sono praticamente inesistenti, Eddie fa i miracoli alla chitarra con un riff, delle rifiniture e un assolo eccezionali, e che altro dire?… un buon Alex van Halen ad accompagnare il tutto, per fornire come risultato una delle migliore canzoni del disco, che a mio parere non sarebbe sfigurata nemmeno su un Van Halen (inteso come il disco di debutto). Passando da Good Enough a “Why Can’t this be Love” notiamo un cambiamento di 180° nello stile musicale, eppure la qualità complessiva non ne risente. Si passa da sfuriate sulla 6 corde ad un uso pesante dei synth, da un funambolismo innato alla melodia, eppure anche Why Can’t, soprattutto dopo più ascolti riesce a rapire. Ottimo il vocalist, sicuramente alla sua miglior performance coi Van Halen, che in questa canzone non fa assolutamente rimpiangere Diamond Dave (in altre purtroppo, pur non cantando mai male, si sente che il carisma e i tocchi di classe di Roth, come urletti eccetera, mancano). Si abbassa la media qualitativa con la pur pirotecnica “Get Up”, pezzo tiratissimo, anch’esso old style, ma che se all’inizio esalta alla fine angoscia un po’, forse a causa dell’eccessiva lunghezza. Comunque su breve distanza Get Up è una bella mazzata (mi ricorda alla lontana “I’m the One” come ritmiche), piuttosto monocorde ma che scatena. Ottimo ancora il lavoro del trio strumentale (soprattutto in sede del funambolico assolo), Hagar in ribasso dopo le prime due, convincenti, prestazioni, ma sostenuto bene dalle backing vocals, che mascherano parzialmente alcune pecche. Tirando le somme abbiamo comunque ancora un album nel complesso più che positivo, e che avanza di grado con la per certi versi magica “Dreams”. L’inizio di tastiera, accompagnata da un lieve arpeggio, è di quelli splendidi, molto “Jump-style” (come del resto tutta la canzone), e anche quando la song si evolve in velocità non è niente male. Le strofe sono ben cadenzate, il cantato è intonato e ci porta allo spettacolare refrain, dove ancora le keyboards la fanno da padrone. Certo, forse questo non è hard rock selvaggio al 100%, tuttavia è cosa di non tutti i giorni, di classe. Meglio sicuramente della successiva “Summer Nights”, la prima vera bocciatura di 5150. Nel senso, è vero che la canzone si presenta subito bene, con un lungo e più che pregevole assolo, ed è vero anche che il ritornello è molto carino e coinvolge, tutto il resto però non è assolutamente niente di che. La velocità è media ma a mio avviso la ritmica è impostata male, in quanto stanca presto. Andiamo leggermente meglio con la sesta “Best of Both Worlds”, molto rockeggiante, con un cantato che si fonde bene al suonato e dei pregevoli stacchi melodici mescolati saggiamente al tipico sound della 6 corde più folle d’America, eppure…. …eppure anche qui, nonostante il netto miglioramento rispetto a Summer, dopo un po’ la noia assale, lenta ma inesorabile, l’ascoltatore. Fa anche un po’ male dirlo, ma sembra proprio che in alcuni frangenti i Van Halen abbiano perso la loro proverbiale capacità di stupire ad ogni momento di ogni canzone, forse il loro maggior pregio. Speriamo non sia ancora così e andiamo avanti col settimo pezzo, “Love Walks In”, che si apre molto pomposo, dopo la chiusura in fade del precedente brano. L’intro è estremamente degna di nota, con un pianoforte supportato da tastiere che creano una melodia davvero bella. Anche la prosecuzione è buona per questo lento, sembra quasi, in alcuni tratti, un pezzo tratto dal repertorio e dalla fantasia dei Whitesnake, con in più l’elettronica a dare un tocco di grazia. Molto probabilmente nell’elite di 5150 con l’opener e le altre due tracce ove, tecnologicamente parlando, il futuro domina sul passato, quindi con “Why can’t…” e “Dreams”. E dopo un bel lento let’s Shake your heads! È infatti giunto il tempo la la titletrack, aperta da un gioco chitarra/batteria che se pur non headbangesco non lascia mica indifferenti. La track però, non è veloce come può sembrare all’inizio, ma è un continuo variare tra mid tempo e tratti più spediti, tratti che tuttavia non cambiano nella sostanza. Sostanza che è nel complesso più che discreta ma che, diciamoci la verità, poteva essere fatta meglio, assolo escluso. In parole povere… per essere una titletrack, 5150 poteva e doveva lasciare ben altro segno, altrimenti tanto valeva chiamare l’album “Good Enough”. Non è una stroncatura eh, sto parlando di una bella song, ma non di una titletrack da disco della riscossa. L’album si chiude col miglior basso dell’intera produzione, basso che fa da preludio alla closer “Inside” canzone pesante e molto misteriosa, dalle voci di fondo potenti e un cantato appena sufficiente, che non brilla come in altri componimenti. Sicuramente si tratta della song più strana e che meno uno si aspetterebbe dal disco, un disco che si chiude all’insegna di un mio dubbio. Ma vi sembra normale che i Van Halen facciano pezzi lenti che siano migliori delle loro, celeberrime, fast songs? Una vera e propria evoluzione… Ascoltate (tutto sommato un po’ di ascolti anche 5150 se li merita) e meditate.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) Good Enough
2) Why Can’t this be Love
3) Get Up
4) Dreams
5) Summer Nights
6) Best of Both Worlds
7) Love Walks In
8) 5150
9) Inside