Recensione: 6 Days To Nowhere
Quante parole spese per il nuovo corso dei Labyrinth. Quante discussioni, dubbi e perplessità sulla reale efficacia di un gruppo che ha deciso di voltare pagina dopo il clamoroso divorzio con Olaf Thorsen (Vision Divine). Inutile tornare ad affrontare un discorso chiuso a chiave e consegnato alla storia di un genere tornato ai grandi livelli anche grazie al loro contributo: Return To Heaven Denied, volente o nolente, ha generato una foltissima schiera di proseliti e, ancora oggi, se ne intravedono gli effetti.
Si parlava del nuovo corso, avviato col disco che celebra il monicker della band, Labyrinth, portato avanti da Freeman e, oggi, approfondito da 6 Days To Nowhere: il tragitto indicato è chiarissimo, che lo si voglia accettare o meno.
Il combo italiano prosegue la ricerca di un suono personale e disgregato, con una propensione melodica a marcarne volontariamente l’apparato stilistico. La Voce (V maiuscola non a caso) di Roberto Tiranti è l’autentica sublimazione di un album che non avrebbe raggiunto l’obiettivo se sprovvisto di suddetto parametro.
Ora, di una cosa sono convinto: bisogna fissare l’attenzione sulla qualità della musica pubblicata, non sul genere proposto dai Labyrinth; sia esso heavy metal, power metal, hard rock, AOR o qualunque altro, ed è proprio qui che 6 Days To Nowhere non mi convince. E’ qui che il gruppo non eccelle.
I requisiti tecnici sono di primissimo livello; Matt Stancioiu (batteria), Andrea De Paoli (Tastiera), Andrea Cantarelli (Chitarre) e Pier Gonella (Chitarre) non sono i primi novellini che si incontrano per strada ma alle prerogative tecniche vanno contrapposte altrettante virtù, tutte riallacciabili alla fase comunemente denominata “songwriting”.
C’è chi parla di elegante complessità, di genialità compositiva, caratteristiche a mio avviso inesistenti. Si cerca, banalmente e razionalmente, di perfezionare un “genere multirazziale” con tante, tantissime idee, per lo più ordinarie.
La mie prime attenzioni si sono riversate sulla produzione che raggiunge livelli più che dignitosi a differenza del risultato ottenuto in precedenza e che ha svalutato l’interessante Freeman.
Passiamo alla musica, argomento ben più importante: ammirevoli i primi venticinque minuti, accettabili gli ultimi trentadue. La purezza e la follia sono le armi sapientemente utilizzate nella prima parte; la purezza di Crossroads e di Mother Earth (bellissima, la migliore del disco) si alternano alla “follia” di Lost e dei suoi agguerriti patterns di batteria associati alle inattese growling vocals, e alla personalissima rivisitazione del classico Beatlesiano Come Togheter.
E poi? E poi la concentrazione comincia a disperdersi per le cause a cui si è fatto riferimento in precedenza: brani che tornano ad essere “normali”, canzoni che galleggiano tra il carino e il gradevole, pezzi che si lasciano ascoltare (What???), brani che scorrono agevolmente e che si intersecano nei giochi di costruzione (Rusty Nail e Out Of Control). Ma è troppo poco per un gruppo come i Labyrinth, no può e non deve bastare, i ragazzi devono abbattere le barriere e allargare la soglia della consapevolezza artistica attualmente limitata e conservativa.
Riascolto il disco una, due, dieci, venti volte. Continuo a trovarlo freddo e distaccato, bello senz’anima forse. La precisa identità musicale non corrisponde alla maturità compositiva e non ci si può accontentare di una delle migliori voci italiane di sempre per spezzare l’incantesimo che li vuole avvinghiati ad un pilone secondario di questo panorama discografico. Più che convincermi che i Labyrinth torneranno ai livelli che meritano non posso fare, ma si tratta di una prerogativa che va conquistata sul campo col tempo e col sudore. Per quanto mi riguarda, il livello attuale è poco più che soddisfacente.
Gaetano Loffredo
Tracklist:
1.Crossroads
2.There Is A Way
3.Lost
4.Mother Earth
5.Waiting Tomorrow
6.Come Together
7.Just One Day
8.What???
9.Coldness
10.Rusty Nail
11.Out Of Control
12.Wolves’N’Lambs
13.Smoke And Dreams
14.Piece Of Time (2007 version)