Recensione: 7 Billion and a Nameless Somebody
Sono tornati i Fire On Dawson! Vedo già folle acclamanti che, dopo l’entusiasmo iniziale, cominciano a tossicchiare imbarazzate e si domandano a mezza bocca: “E chi sono costoro?“. Ritrovate il coraggio, questo gruppo indo-tedesco non è poi così conosciuto fuori dai confini del Sub-Continente e della Germania. Una rapida panoramica per tracciare un quadro generale che vi permetta di inquadrare questi quattro ragazzi: dopo una gestazione piuttosto travagliata, che ha visto scomparire tutti i membri originari della band ad eccezione del bassista, la band riesce ha trovare una sua connotazione stabile e a pubblicare, nel 2010, il suo primo album. “Prognative“. Il debutto riscuote un buon successo di critica e vendite, tale da permettere al quartetto di impegnarsi per aggiungere un secondo capitolo alla propria discografia. Indovinate un po’? Sto parlando proprio di questo “7 Billion and a Nameless Somebody“.
Ingolositi dall’introduzione? Ottimo, vediamo di approfondire, allora!
La presentazione del CD è ottima, una bella copertina, un libretto completamente delirante in cui viene descritta tutta la genesi del disco e cosa ha combinato la band dall’ultima sua pubblicazione. Nonostante si abbia l’impressione di leggere una lettera a dei parenti lontani che non si vedono da tempo, non ci arrabbiamo; è comunque un segnale di attaccamento ai propri fan che, evidentemente, non sono così devoti o motivati da seguire su Internet le vicissitudini dei propri beniamini.
Facezie a parte, come se la cavano i Fire On Dawson quando si tratta di musica? I tre strumentisti teutonici e il cantante indiano offrono al pubblico un progressive metal estremamente melodico, che non rinuncia però a cercare soluzioni complesse a livello armonico. Nonostante alcuni ammiccamenti evidenti a gruppi come Dream Theater e i primi Pain of Salvation, il gruppo riesce a creare uno stile piuttosto personale, caratterizzato da due punti cardine: la ricerca di una costruzione musicale multiforme di durata variabile e la sua reiterazione per la durata intera del pezzo. Su questi due pilastri, si fonda tutto quanto quello che viene offerto all’ascoltatore.
Stranamente, ciò non pregiudica particolarmente i brani, anche grazie alla durata degli stessi, mai eccessiva. Probabilmente per questo motivo, le canzoni sono godibili prese singolarmente, ma danno il loro meglio quando ascoltate una di seguito all’altra, in un continuum uniforme e coerente.
In questo modo, i paesaggi melodici che vengono delicatamente delineati dai riff di chitarra si amalgamano in maniera indissolubile con quanto emerge dalla sezione ritmica, mentre la voce di Batra suggella elegantemente il tutto. Una proposta di buon gusto e raffinata, che trasuda un’alterigia snob incredibilmente adeguata a una certa corrente di progressive rock più elitaria.
Prendiamo, ad esempio, The Code: una bella introduzione aggressiva fa da apripista per un’alternanza piano/forte inscritta all’interno di un paio di registri fondamentali che vengono riconsolidati e ribaditi per tutta la durata del pezzo, aggiungendo o togliendo strumenti o parti vocaliche a seconda dell’occorrenza. Stesso discorso per una delle tracce più rilassate dell’intera produzione, Debris. Ritmi pacati e melodie ipnotiche si protraggono per quasi quattro minuti, senza mai cercare di discostarsi in maniera troppo evidente da una vena fondamentale che scorre lungo tutto il pezzo. Questi sono solo due casi tipo, ma il loro modello è di certo rintracciabile per l’intera durata del CD.
Cosa rimane da dire? Questo album vale l’acquisto o può tranquillamente passare sotto silenzio? I Fire on Dawson suonano un buon progressive, con una spiccata propensione alla melodiosità che viene accentuata in sede di produzione. Sicuramente, i quattro componenti del gruppo sono in grado di fare il loro mestiere anche se, e duole davvero ammetterlo, si limitano fin troppo spesso proprio a fare ciò, senza sbilanciarsi in maniera eccessiva. Nonostante abbia un titolo improponibilmente lungo, 7 Billion and a Nameless Somebody è un disco piacevole, ottimo se state cercando qualcosa di ben suonato ma non troppo impegnativo. Un CD perfetto per rilassarsi al termine di una lunga giornata di fatiche; ovviamente, se cercate del progressive più impegnativo, vi consiglio di cambiare decisamente aria.
Damiano “kewlar” Fiamin