Recensione: 9 (Nine)
‘Viking’, ‘pagan’ e ‘black metal’.
Tre sotto-generi metallici che s’intersecano come serpenti abbracciati, mischiando i loro umori, i loro sapori, le loro storie, le loro tradizioni. Come fanno i Fortid, provenienti dall’Islanda e autori – in tredici anni di carriera – di cinque full-length di cui l’ultimo è quello in esame, “9”.
Seppur, a onore delle menzioni enciclopediche, il pagan è in realtà una forma musicale eterogenea unita dalla similitudine dei temi trattati. Cosicché, per definire al meglio cosa suonino i quattro di Oslo (ora), non rimane che limitarsi a ‘viking’ e ‘black metal’. Fatte le debite proporzioni con lo spessore artistico dei personaggi interessati, un po’ come accadde con Quorthon, che segno il passaggio dal più abominevole black metal al più incommensurabile viking con il capolavoro “Blood Fire Death” (1988). Inserendo in esso dei dettami chiari e precisi sulla fisionomia del limite fra i due stili, creandone anzi con l’occasione uno vero e proprio, e cioè il viking. Che, nel caso specifico dei Fortid (diventati una full line-up band con il terzo lavoro “Völuspá Part III: Fall Of The Ages”), meglio si adatta alle maestose costruzioni armoniche che costellano i territori abbracciati da “9”.
Un platter, difatti, assai lontano dalla cupa misantropia del black. Al contrario teso a essere una sorta di manifesto dell’indescrivibile natura delle terre polari. Freddo, gelo, roccia, granito e acqua sono gli elementi che formano la base della musica di E. Thorberg e compagni. Elementi che, in mondo quasi antitetico alla loro intrinseca natura rigida e crepuscolare, fanno da piedistallo a composizioni di ampio respiro, ricche di melodia, alternanti momenti in cui s’intravede un pallido sole che comunque riscalda le brulle terre natie dei Nostri ad altri ove è la notte a diventare la padrona dell’esistenza, apportando un sottile velo di melanconia (“Hof”).
Nonostante sia privilegiato un approccio basato maggiormente sulla punteggiatura a media velocità, i segmenti di DNA aventi natura black emergono qua e là con prepotenza, come in “Hugur”, nella quale la potenza devastatrice dei blast-beats fa echeggiare i tuoni delle sempiterne eruzioni vulcaniche. E dove, fra l’altro, Thorberg s’inventa delle linee vocali che non possono non ricordare, perlomeno in certi frangenti, Ozzy Osbourne (sic!). La furia degli elementi è un tema che trova riscontro anche in altri brani del disco, anche se la continuità non è quella ideale. Anzi, l’eccessiva lunghezza di alcun di essi (“Viska”), diluisce eccessivamente sia le dissertazioni armoniche sulla bellezza della natura (in questo caso pregevoli), sia le arrabbiature degli strumenti.
Con un risultato complessivo discreto, sì, ma non buono. Come per i lavori precedenti, ai Fortid pare mancare il famigerato ‘quel qualcosa in più’ tale da alzare l’asticella qualitativa di un’opera artistica, musicale in questo caso, oltre la media dei praticanti del genere.
Per chi ama il viking, in conclusione, “9” non può in ogni caso mancare dalle discografie più attente, appassionate e, naturalmente, fornite.
Daniele “dani66” D’Adamo