Recensione: Cursed Mortality

Di Daniele D'Adamo - 18 Gennaio 2024 - 15:08
Cursed Mortality
Band: Carnation
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Death 
Anno: 2023
Nazione:
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73

Dopo tre anni dall’ultimo full-length, e una pletora di singoli, tornano in pista i Carnation con la loro nuova creatura, “Cursed Mortality”.

Si afferma che il terzo album rappresenti quello della raggiunta maturità tecnico/artistica. E, in effetti, così parrebbe. Ma non nel modo in cui si pensi, e cioè del definitivo battesimo di uno stile che renda la band riconoscibile nel mare delle proposte analoghe nonché nella compiuta definzione del modus operandi di comporre. No. “Cursed Mortality” rappresenta una clamorosa svolta, consistente nell’abbandono pressoché totale dell’old school death metal per una versione dello stesso death ma al passo con i tempi.

Tale svolta coinvolge un modo di porsi che non sembrava essere modificabile, tanto i Nostri erano immersi nella vecchia scuola. Con “Cursed Mortality” viene riscritto in maniera totale, invece, il presente e, quindi, si presume, il futuro; giacché il disco, date le premesse, potrebbe essere soltanto un passaggio intermedio per una nuova era.

Lo stile, ora, è death duro, questo sì, sempre. Ma con alcune differenze rispetto a ciò che è stato. Anzitutto il mood. Lungi da sentori di putrefazioni varie e cupi respiri, l’umore è positivo, propositivo, si azzarda tendente al sorriso (cfr: la presenza di Andy Laroque nell’opener-track ‘Herald of Demise’). Certo, coesiste tutt’ora un leggero alone di malsanità, ma si tratta solo e soltanto di strascichi derivanti dal passato (‘Cycle of Suffering’).

Poi, la presenza di clean vocals, che sicuramente sconvolge i fan dell’act belga della prima ora. Una presenza accennata e non ancora pienamente sviluppata, tant’è che l’azzardo si compie in ‘Replicant’ e nella suite finale nonché title-track. Voce pulita abbracciata a un uso più massiccio della melodia. Ora, non bisogna pensare che si sia scivolati nel melodic death metal, assolutamente no. Ciononostante, anche e soprattutto negli assoli di chitarra, la ricerca dell’armonia è solida, consistente, continua (‘Maruta’, ‘Dutroux’).

Per il resto Simon Duson attacca le linee vocali con grande aggressività. Ugola scabra, rifinita con la carta di vetro a grana grossa. Sanguinolenta per via del tono stentoreo, ben modulato e vario, che dipinge una delle caratteristiche più importanti ed evidenti dell’LP.

Eccellente, come più su accennato, il lavoro di Jonathan Verstrepen e Bert Vervoort alle sei corde. Riffing granitico, certamente non zanzaroso, dal sapore thrashy, possente, identificativo di un wall of sound massiccio, senza crepature. Con l’aggiunta di una fase solistica di primo piano, capace di pennellare il platter di arzigogoli dorati la cui ottima fattura manifesta una classe non indifferente.

Molto variegata la sezione di spinta a responabilità di Vincent Verstrepen alla batteria e Yarne Heylen al basso. Batteria che esplora un’estesa varietà ritmica, divenendo talvolta devastante (‘Metropolis’) per via di un’intepretazione totalmente annichilente dei blast-beats che, improvvisamente, saettano nell’etere per piombare con forza distruttiva sulla terraferma. Anche in questo caso, sono rari i casi in cui sopravvive l’incedere trascinato tipico dell’old scool. Heylen, da par suo, contribusce a inspessire per bene un sound di per sé già abbondantemente… carnoso (‘Submerged in Deafening Silence’).

Come si può intuire, le varie canzoni, prese una per una, lasciano intravedere un songwriting in grado di poter esplodere da un momento all’altro. Nel complesso, al contrario, si dimostrano ancora un po’ acerbe nell’essere coese. Come se anche gli stilemi della foggia musicale trattata siano anch’essi in fase evolutiva. Ancora da raggiungere, insomma, la continuità compositiva tale da rendere le song come un’insieme compatto, impossibile da scalfire. Una volta di più si apprezza ‘Cursed Mortality’, brano ricco di particolari, sfumature, sfaccettature. Questo, sì, indicativo di un talento compositivo ancora inespresso nella sua totalità.

Onore ai Carnation che hanno avuto l’ardire di ritornare sui propri passi per creare qualcosa di diverso dal solito, in linea con la progressione musicale che ci si aspetta da un ensemble che non vuole avere nulla da spartire con gli altri.

Daniele “dani66” D’Adamo

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