Recensione: _XI
Capitolo I – I ride alone
Una striscia di asfalto incandescente fuggiva lungo terre di margine.
Un lembo di deserto perferico che attraversava il giorno verso i fuochi della notte.
Un’aquila poi rubava la scena per pochi frames…
…I ride alone, the wasteland that I cross,
Will take another life, we’ll take another loss…
Ero rimasto abbagliato dalla potenza di quel video, la musica poi ti possedeva e non potevo fare altro che ammirarlo. Il video di “Badlands” veniva allora messo in onda da MTV Headbangers Ball, trasmissione che in assenza di altri media, nei primi anni ’90, riuscì a far conoscere tante band metal ad una più ampia platea oppure anche solo ad un ragazzo che in quelle terre desolate ci viveva.
Solo successivamente, grazie a giornali e amici, la storia dei Metal Church fu condivisa e divenne epica del metal.
Non è certamente necessario ripercorrerla per intero (se volte potete inziare da #recensione #ricetti #TMhistory) la storia dei Metal Church, tuttavia è proprio da quel brano, citato in apertura ed incluso nel loro terzo album “Blessing in Disguise”, da cui ripartiamo per tornare ai nostri giorni. Infatti quel figuro che cantava nella periferia desertica era Mike Howe (ex Heretic) chiamato a sostituire il già leggendario David Wayne. Di certo un compito improbo, ma la risposta fu anch’essa improbabile: “Blessing the Disguise” (1989), “The Human Factor” (1991) e “Hanging in Balance” (1993). Tre album che lasceranno positivamente il segno e ancora oggi guardati con ammirazione da pubblico e critica. Poi? Silenzio, la band si scioglie, sopravvivere in quel deserto quando sai che potresti ambire a qualcosa di più non è facile, tuttavia il chitarrista e fondatore Kurdt Vanderhoof non demorde. Vi sarà un ritorno di David Wayne e nel 1999 il gruppo americano rilascerà “Masterpeace”, ma il ritorno del primo cantante non è fortunato, nel 2001 Wayne lascia per dissapori con Vanderhoof. Nel 2004 i Metal Church tornano con Ronnie Munroe alla voce perché il passato non si dissolva nei ricordi.
Solo che Munroe getta la spugna nel 2014, dopo una serie di album di livello variabile, ma nulla di particolarmente memorabile. Vanderhoof chiama a sé, venti anni dopo, niente meno che Mike Howe, in una rivisitazione del passato che i fans non possono altro che guardare con speranza, anche solo per un nuovo tour, altre date e la possibilità di trovarsi sotto il palco della chiesa metallica a inneggiare nei bagliori riflessi di quell’epico passato.
Capitolo II – the pain is all the same
Meglio non si poteva iniziare. Riff veloci e thrashy, ci scaraventano dentro “Reset”. L’incedere della batteria di Jeff Plate è martellante, mentre Mike Howe ci guarda negli occhi e in un istante eterno sentiamo echi del passato nella sua voce. Ancora in viaggio in quelle terre desolate. La voce fende l’aria e mulina energia. I suoni sono secchi, nessuna concessione a modernità amene se non una pulizia estrema. Così la batteria pur percependola nel suo imperversare non fa veramente male. In ogni caso il risultato è decisamente buono. Anzi grazie a Howe è fottutamente buono. Mi calmo.
Anzi no. La seconda traccia intitolata “Killing Your Time” rigurgita riff rocciosi ed ossessivamente Howe insiste nel ritornello, comunque costruito su una buona melodia. Ci riprova “No Tomorrow” e funziona decisamente meglio con quell’apertura acustica ad esclamare un’epica fatta di oscurità interiore, di una strada che brucia ogni secondo il nostro presente, così Howe diventa teatrale mentre le chitarre di Rick VanZandt e Kurt Kurdt Vanderhoof costruiscono con Jeff Plate un muro distorto e ossessivo.
L’arpeggio con cui apre “Sign Path” è deja-vu. Di nuovo quella strada che corre in una periferia morente. In qualche modo il brano rimanda a “Badlands”, in parte nella struttura, in parte per un’atmosfera di ostilità e ribellione palpabile. C’è anche uno stacco di Howe che spezza la struttura sin lì lineare e apre le danza ad un dialogo fatto di riff-assoli di pregevole fattura. Una delle migliori dell’album o semplicemente la mia preferita.
La quinta traccia “Sky Falls In” ha un incedere greve, inquieto. La voce si muove strisciando in note appesantite da un cielo che si è ormai oscurato da tempo. I riff accerchiano melodie che sembrano provenire da cerchie di dannate in una danza rallentata. Eppure “Needle & Suture” diventa ancora più ossessiva, quasi proseguisse e rilanciasse l’azzardo della precedente. L’azzardo funziona.
A guardarsi indietro c’è di che essere soddisfatti, ma da qui in avanti la strada di “XI” diventa più complicata. La sesta traccia “Shadow”, nel suo incedere ossessivo, ripete senza particolari spunti vincenti quanto detto sin qui, mentre sia in “Blow your mind” che in “Soul Eating Machine” i Metal Church costruiscono brani piacevoli grazie anche sopratutto alla buona prova vocale di Howe. La decima traccia “It Waits” si carica di toni oscuri e teatrali in un convincente Howe per poi…implodere. Quando il brano dovrebbe sprigionare potenza, sembra in realtà avere il freno a mano tirato con una chiusura in sfumato evitabile.
La chiusura di “XI” è affidata all’undicesima (numero ricorsivo e forse non causale) traccia intitolata “Suffer Fool” che si muove a strappi in un incedere punkeggiante che ricorda gli Overkill. Un buon brano.
Capitolo XI – my spirit never dies (the end)
L’undicesimo dei Metal Church è soprattutto il ritorno di Howe. Better to call Howe? In questi mesi mi è parso di vedere cartelloni pubblicitari ovunque per la rete. Li guardi con un distacco disincantato e a livello razionale pensi che il passato non torna e il presente mal che vada può essere tra il buono e il passabile. Però un po’ ci speri in ultima magia. Rimanendo disincantati. Ci troviamo di fronte ad un buon album che funziona meglio nella prima parte, mentre nella seconda arranca sostenuto sempre però dalla prestazione di ottimo livello di Howe, infatti anche quando il brano stenta lui da solo è in grado di mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore. Howe, risolve problemi? Solo in parte. La produzione ha il pregio di donare un suono piuttosto secco, senza troppi fronzoli, tuttavia avrei preferito suoni più cattivi, più sporchi in modo dare maggiore risalto al tipico scontro tra melodia e potenza heavy/thrash dei primi album Metal Church .
Altra cosa che non mi ha convinto del tutto è la prova alla batteria di Jeff Plate che certamente è penalizzato dai suoni non proprio potenti, ma è anche vero che non sembra essere sempre in grado donare qualcosa in più ai brani, quel dinamismo necessario per elevarne sia la qualità che l’intensità. Ho indicato in Howe uno dei fattori chiave per la riuscita di quest’album, ma è riduttivo infatti non dobbiamo dimenticare che secondo quanto dichiarato dallo stesso Howe avrebbe semplicemente interpretato partiture già scritte da Vanderhoof.. Gli arraggiamenti e le parti soliste sono decisamente ben suonate e contengono passaggi ben elaborati. L’accoppiata Rick VanZandt e Kurdt Vanderhoof funziona, le chitarre dialogano, inventano e soprattutto costruiscono.
Considero “XI” come un buon album che riporta i Metal Church al di fuori del pantano ingenerato dal non del tutto convincente “Generation Nothing”. In quest’ultimo lavoro vi sono brani in cui lo spirito indomito dei Metal Church riaffiora con fierezza e pur non arrivando a toccare le vette degli esordi, in alcuni brani riesce a trovare strade antiche, che pensavo perse per sempre.
Per i fans del gruppo, quelli che hanno apprezzato anche il periodo Howe, diventa un album da prendere in considerazione, non indispensabile, ma credo che sia possibile trovarci qualche brano che potrebbe davvero piacere (ricordo poi che nella versione deluxe vi sono quattro bonus che non è stato possibile valutare). Per chi fosse amante del classicume? Diciamo che ne vale comunque la pena, in considerazione delle alternative attuali (esigue). Comunque, un buon album, nobilitato dal ritorno di Howe e dalla ritrovata ispirazione di Vanderhoof. Un peccato per la produzione che a mio modo diviene limite e per qualche passaggio a vuoto evitabile.
MARCO GIONO