Recensione: Í blóði og anda

Di Daniele Balestrieri - 6 Settembre 2004 - 0:00
Í blóði og anda
Band: Sólstafir
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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88

Batte bandiera islandese la nave dei Sòlstafir, ennesimo vascello fantasma che non mancherà di stupire quegli ascoltatori ormai ridotti allo stremo da un mercato black/viking agonizzante, diviso tra le conferme dei “soliti noti” e le grandi defezioni degli ultimi anni. Eppure, in sintonia con la propria terra e con la storia del viking black, anche questo trio islandese ha avuto una vita travagliata che ha avuto inizio in un anno molto importante per il black, il 1995. Dopo una serie di demo, tanto ben fatti quanto irreperibili, e di vicissitudini di ogni tipo (finanziarie, di line-up, di etichette), i Sòlstafir vengono notati dalla veterana Ars Metalli, che decide di accogliere nei propri cantieri questa band vagabonda ma dalle potenzialità davvero notevoli.

Dopo qualche lavoro i Sòlstafir trovano una propria identità (fattore da non sottovalutare) e iniziano a scegliere una propria via, cercando di allontanarsi dagli stilemi del genere. La missione si rivela, come al solito, un’arma a doppio taglio: se da un lato il genere non presenta caratteristiche troppo marcate (almeno fin quando accoglierà band come gli Enslaved e gli Adorned Brood, due facce della stessa medaglia), dall’altro proprio tale mancanza ha reso possibile una grande varietà di esperimenti nel corso degli anni, rendendo la maggior parte dei sentieri immaginabili già battuti.

Che possono fare i Sòlstafir del 2002, dunque, per piantarsi saldamente sulle proprie gambe senza essere etichettati come “l’ennesima band nordica”? La spiegazione a primo ascolto non sembra particolarmente convincente: il trio esegue un ottimo black metal di stampo norvegese, inquinato però da rallentamenti improvvisi e tracce più introspettive ed epiche. Detto questo, vengono in mente gli Enslaved di Frost, e appresso a loro almeno altre cinquanta band. Peccato che con gli Eslaved abbiano ben poco a che spartire, e questo non fa altro che confermare la malaugurata teoria secondo la quale riportare la musica a parole è davvero un’operazione complessa, che raramente rende giustizia ai dischi.

Í Blóði Og Anda eccelle nel tentativo di rendersi “diverso”, senza necessariamente fondere miliardi di generi in stile Borknagar o Solefald, senza scartavetrare gli strumenti alla Ildjarn o senza costruire montagne di epos come i Moonsorrow. Certo non sto parlando di una pietra miliare, ma molte cose di questo CD mi hanno colpito positivamente, e alcune di esse mi hanno spronato alla recensione. Salta immediatamente alle orecchie il cantato di Aðalbjörn Tryggvason, membro originale della band, che decide di assaltare le nostre orecchie semplicemente urlando. E non parlo di urla costruite come nel normale screaming, e nemmeno di urla grottesche alla Burzum. Quelli di Tryggvason sono urli nella accezione più comune del termine. Canta come se il pubblico fosse pieno di sordi, e la cosa ha imbarazzato ben più di un critico all’epoca in cui uscì questo disco. Certo, bisogna dire che c’è da abituarsi a un cantato del genere, ma mentre per certe band è proprio impossibile mandare giù certe evoluzioni stilistiche, per i Sòlstafir vi sorprenderete della velocità con cui l’imbarazzo lascerà il posto allo stupore, e in questo i testi sono di grande aiuto. Grazie alla drammaticità di tracce come “The Underworld Song“, per esempio, vi accorgerete come Tryggvason non stia mascherando la sua incapacità nel canto, ma stia recitando quella commovente disperazione nordica e pagana, richiamando gli spiriti del passato mediante riff massicci, impressionanti, disperati, che guardano orizzonti ormai spariti alla vista e torturano l’anima. L’eccellente lavoro di batteria e l’ottima esecuzione degli strumenti melodici rendono pienamente l’idea dell’attaccamento della band a scenari talvolta hard rock, talvolta quasi grind, talvolta (e soprattutto) a quegli scenari black-melodici che hanno reso leggendarie band come Emperor e Satyricon.

L’album omaggia in parte il black più duro e in parte quel black epico più conosciuto con il nome di Viking Metal. In particolare, con un accorgimento quasi Bathoriano, la prima parte del CD è abbandonata al maelstrom black. L’ottima apertura, “Undir Jökli (Vetrarins Daudhu Sumarblom)“, ricorda episodi alla Children of Bodom o alla Horna, con il lavoro ritmico martellante della batteria, finché non entra in campo l’originale cantato di Tryggvason e la canzone si incanala in binari del tutto personali, senza abbandonare quella parte ritmica così ossessionante, che associata a riff di semplice assimilazione rende la canzone comprensibile fin dai primissimi ascolti. Caratteristica confermata dalla title track, “Í Blóði Og Anda“, la quale si abbandona anche ad assoli di gusto classico, che richiamano alla memoria quelle sperimentazioni dei Borknagar più felici di Empiricism. Saltando la già decantata e ottima “The Underworld Song“, passiamo un’altra coppia di canzoni decisamente black, “Tormentor” e “2000 Ar“, in cui la medesima struttura lascia il posto ad alcuni arrangiamenti interessanti di chitarre a vari livelli di distorsione, framezzate da alcuni assoli molto interessanti, il tutto sempre in chiave estremamente ritimca, caratteristica che continua a ricordarmi il buon Sudetaival degli Horna. La seguente “Ei Via Munum Idhrast” pecca purtroppo di una leggera banalità nella prima parte, ma il cantato diventa ancora più disperato, e la cosa ai miei occhi non fa che donare alla canzone, vista anche la velocità non indifferente, che porta un finale davvero ciclonico a questa prima parte di album.

Probabilmente canzone più ispirata dell’album, la seguente “Bitch in Black” cambia completamente direzione a questo “Í Blóði Og Anda”. Il cantato diventa pulito, ingenuo, tranquillo, e chitarre semplici prendono il posto della brutalità ascoltata finora. Strizzando l’occhio in maniera abbastanza sospetta a “Storm of Evil” dei mai troppo rimpianti Isengard, la canzone adotta l’idioma britannico e si trascina come una ballad, lenta e trascinata, fino al minuto e quaranta – momento in cui coglie velocità e guadagna, minuto dopo minuto, un fascino davvero fuori dal comune, che fa tornare alla memoria tanti esponenti scandinavi del viking-folk di primissimo ordine, molti dei quali già citati nel corso di questa recensione. Ottimo esempio di gioco-riff acustico in stile finnico, Bitch in Black abbandona il proprio possente trono all’atmosferica “I Viking“, altra perla che solleva l’album in alto, conferendo quasi uno stato di malessere da vertigini, nel corso dei quasi 9 minuti di eccezionale connubio tra musica atmosferica, musica tirata e frammenti “cinematografici” di alta classe, quasi a mimare quel pregevole esempio di immersione psicologica che fu “One” dei Metallica. Il CD è prossimo alla conclusione con il nono passo, “Arstidir Daudans“, un esempio inquietante, a tratti oppressivo, che preme nel dipingere i macabri toni delle stagioni che muoiono in sequenza, accompagnate da eterei cori femminili di driadi e piccoli spiriti dei boschi. Altro eccellente esempio di spirito nordico, quest’ultima traccia è un connubio senza fallo tra gli Ulver più scenografici di Bergtatt e il black più minimalista dei Menhir.

Davvero una evento tutto da ascoltare, questo Í Blóði Og Anda. Non vi stupite se ne ascolterete ancora buona parte a distanza di anni: questo è un album fatto palesemente per durare, e lo dimostra la vasta gamma di sonorità offerte. Tecnicamente, i musicisti sanno il fatto loro, e riescono senza problemi a tramutare in vibrazioni ciò che desiderano. L’unico appunto, che può diventare discriminante, è la voce del cantante. Purtroppo è semplice, peculiare e sgraziata, e può essere disprezzata da un certo tipo di ascoltatori. Chi comunque è già abituato al black scandinavo non avrà problemi ad accoglierne la grande teatralità, mentre è d’uopo un avvertimento all’ascoltatore occasionale. Anche se la parte finale del CD è composta da una trilogia di canzoni adatte anche a orecchi inesperti, è bene avvertire che la prima parte è un dono esclusivo per chi possiede orecchie e percezioni tormentate e inquiete, proprio come inquieta è la terra che ha generato questa ottima band.

Tracklist:

1. Undir Jökli (Vetrarins Daudhu Sumarblom)
2. Í Blódhi Og Anda
3. The Underworld Song
4. Tormentor
5. 2000 Ár
6. Ei Via Munum Idhrast
7. Bitch In Black
8. Í Viking
9. Árstíair Daudhans

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