Recensione: A blur in time
Molti di voi ricorderanno il biondo chitarrista Kurdt Vanderhoof come il leader nonché deus ex machina dei power/thrashers Metal Church, seminale band americana autrice di capolavori assoluti del calibro di “Hangin’ in balance” e “The human facture”, ma ben pochi sanno dell’esistenza di un progetto parallelo che porta il suo nome e che qualche anno addietro ha dato alla luce un omonimo album intriso di sonorità moderniste molto vicine al grunge, che secondo un mio modesto parere, era riuscito solamente a mettere in cattiva luce le qualità artistiche di un ottimo song writer quale è di sicuro il nostro Kurdt.
Ma si sa, quando i grandi musicisti decidono di dedicarsi ad una propria carriera solistica, tentano in tutti i modi di allontanarsi il più possibile delle bands madri, cercando di proporre qualcosa di nuovo o di “innovativo” qualcosa insomma che li ripaghi, se non col successo di massa, almeno a livello artistico ed umano.
Così il chitarrista di origini olandesi, trapiantato oramai da anni nella nebbiosa e piovosa Seattle, tenta se non altro di recuperare terreno ed una certa credibilità nei confronti dei propri estimatori, confezionando un album per certi versi molto distante dal suo predecessore, e per fortuna aggiungerei anche, e che mette in mostra un lato inedito del Vanderhoof musicista, e che si posiziona di diritto fra le sorprese di questo fine anno.
Affiancato dal compagno di mille avventure Kirk Arrington alla batteria, anch’egli già nei Metal Church, nonché dall’istrionico vocalist Drew Hart, uno di quei cantanti in grado di fare la differenza, che con il suo caratteristico timbro, diciamo una via di mezzo fra il miglior Vince Neil dei bei tempi che furono e Brett Micheals (Poison, NdBeppe), garantisce un buon apporto alla riuscita finale di “A bluer in time”.
Undici tracce farcite di contaminazioni settantiane, come ad un ipotetico incrocio fra i Deep Purple di “Burn” ed “In Rock”, gli Urriah Heep di “Magicians birthday” e “Look at your self” con una spruzzatina di UFO e Magnum tanto per gradire, ecco cosa potrete trovare lungo i solchi di questo disco, un suono caldo ed avvolgente che ti accarezza l’anima fino a trastullarti in un vortice infinito di sensazioni ed emozioni con un Vanderhoof davvero in gran spolvero, e che fra dolci ballate e momenti un po’ più frizzanti, si dimostra ancora una volta il grande artista che tutti conosciamo. Un disco maturo ed appassionante diretto e vibrante, che cresce dentro lentamente, da assaporare ascolto dopo ascolto.
Una song su tutte? Beh, sicuramente la sofferta “ Sleeping giants” che, da quando fa presupporre sin dal titolo, è dedicato alle vittime delle torri gemelle, davvero splendida. Sicuramente i Metal Church saranno pure di un altro pianeta, almeno quelli del passato, ma se come il sottoscritto non avete pregiudizi, provate a dargli lo stesso un’ascolto, magari potrebbe pure piacervi!!!!!