Recensione: A Clock Without a Craftsman
Qualche anno fa vi ho parlato del secondo lavoro degli americani In Human Form, aprendo la recensione con una considerazione sulla necessità di concedere, a certi lavori, almeno un secondo ascolto dopo una prima impressione magari non proprio entusiasmante. Oggi mi trovo in una situazione simile, visto che l’album di cui voglio parlarvi, “A Clock Without a Craftsman”, ricade proprio in questa categoria. “A Clock Without a Craftsman” è il decisamente corpacciuto (98 minuti complessivi suddivisi in due dischi) secondo lavoro per i The Mystical Hot Chocolate Endeavors, quartetto statunitense nato come progetto più o meno privato di Craig Schmuhl. Costui, coadiuvato da William Candelario alla batteria e partito dal desiderio di spaziare al di fuori dei confini del death metal (suo genere di partenza), propone qui un progressive metal complesso, articolato e cangiante, capace di creare un moto ondoso continuo e ipnotico ma in un certo qual modo anche organico. Dal punto di vista concettuale, “A Clock Without a Craftsman” si pone come un’analisi sulle incertezze vissute nel periodo del lockdown del 2020, con particolare attenzione sui tumulti sociali, il progressivo degrado della salute mentale, l’abuso di farmaci e, in sostanza, su ciò che un estremo e prolungato isolamento può produrre in un essere sostanzialmente sociale come quello umano. Un tema forte, nonché terreno fertile per la musica dei nostri, in cui progressive, ambient, death, pop, rock ed heavy classico si affiancano ed intrecciano, mescolando umori e sensazioni in un unico, rovente calderone apparentemente schizoide fatto di continui cambi di tempo e registro. Trame ricche di atmosfera si trovano incastrate tra arpeggi nervosi ma dimessi, in cui la mezza voce pulita di Craig parla di disagio sottile mascherato da tranquilla apatia, e fraseggi languidi, crepuscolari, quasi melodrammatici, per poi esplodere in un growl rimbombante sostenuto da riff energici di base death.
Dal punto di vista sonoro è impossibile, durante l’ascolto di “A Clock Without a Craftsman”, non notare quanto la musica di Schmuhl sia debitrice della lezione Tool: in alcuni frangenti la somiglianza col gruppo di Los Angeles è talmente marcata da risultare quasi offensiva (mentre in altri passaggi sembra accostarsi agli Opeth prima della svolta anni ’70), ma per fortuna non ci troviamo di fronte a una semplice clone–band. Nonostante, come dicevo, le somiglianze tra i The Mystical Hot Chocolate Endeavors e i propri numi tutelari saltino all’orecchio ad ogni piè sospinto, i nostri non mancano di inserire del proprio nella loro ricetta, smorzando lo sperimentalismo del gruppo madre per concentrarsi su atmosfere e transizioni emotive per meglio abbracciare il concept di cui si parlava prima. Emblematica, da questo punto di vista, la penultima traccia: “In His Image”. Il pezzo si apre sul suono delle campane che cedono il passo a un arpeggio vagamente inquieto, che si carica di toni eroici prima di tornare a diffondere tensione su una base heavy. Le fiammate death iniziano a farsi sentire colorando la parte centrale del pezzo, rimpallandosi la scena con passaggi maestosi. Si crea così un vortice che pian piano fa terra bruciata intorno a sé prima di sfumare nell’alleggerimento sonoro che arriva come una boccata d’aria fresca e stempera la violenza con morbide note di piano, cui fa seguito una chitarra sinuosa e insinuante. Il growl torna all’improvviso, portando con sé una nuova ondata più violenta ma non priva di una sua esotica bellezza, chiudendosi poi di colpo su suoni effettati che trasmettono un’ansia mai sopita.
Dal punto di vista strutturale, “A Clock Without a Craftsman” si sviluppa come una serie di tracce piuttosto articolate che si affiancano ad occasionali intermezzi più rilassati, per dar vita a un viaggio punteggiato di sbalzi umorali, improvvise impennate dal piglio eroico e rovinose cadute in un baratro di dissonanze cupe e nevrotiche solo sporadicamente attenuato da fraseggi più tranquilli, che però sanno tanto di quiete prima della tempesta. Tutto ciò sotto l’implacabile ticchettio che apre la prima traccia, “The Clock”, vero filtro attraverso cui capire questo lavoro. È proprio il lento trascorrere del tempo durante l’isolamento che sta al centro di “A Clock Without a Craftsman” e che ne giustifica in parte la snervante lunghezza: l’album si struttura come una progressiva discesa negli inferi dell’animo umano, una lenta ed arrancante lotta tra disperazione e catarsi punteggiata di volta in volta di inquietudine, senso di colpa, rabbia improvvisa ed esplosiva, spaesamento e fuggevoli momenti di lucidità. Proprio per questo motivo, “A Clock Without a Craftsman” andrebbe assorbito come un’entità unica, da macinare lentamente per farsi catturare nella sua spirale snervante ed eversiva.
“A Clock Without a Craftsman” è sicuramente un lavoro difficile da assimilare, in primis per una lunghezza francamente eccessiva seguita a ruota da una densità sonora che mette a dura prova la pazienza dell’ascoltatore, varcando un po’ troppo spesso i confini della ridondanza. Se, però, avrete la forza di resistere e concedergli più tempo ed attenzione, ecco che allora potreste trovarvi dinnanzi ad un lavoro che, nonostante la già rimarcata vicinanza ai Tool (o forse proprio per questo, chi lo sa), avrà molte cose da dirvi.