Recensione: A Complex Of Cages
I Barren Earth sono un po’ come il buon vino: più invecchiano più offrono dischi migliori e A complex Of Cages non fa di certo eccezione. Non c’è poi bisogno di dire ancora una volta come l’etichetta di supergruppo di lusso e nulla più sia già stata cestinata dalla band a suon di opere di valore altissimo e artisticamente seconde a nessuno, unite a una perizia tecnico – compositiva che è ancora prerogativa di pochi. Il nuovo album si discosta quindi un po’ dal precedente On Lonely Towers e passa dai toni più oscuri a un progressive death che sembra un proseguo del discorso dei migliori Opeth (quelli fino a Watershed, non quelli in trip col ’69). La formazione ormai è rodatissima e presenta membri di Hamferð, Kreator, Moonsorrow e via dicendo, con un solo cambio alle tastiere: Antti Myllynen sostituisce Kasper Mårtenson e sarà anche lui artefice di una gran bella prestazione.
Il disco si apre con The Living Fortress e le intenzioni sono subito piuttosto chiare: la ritmica trascina e la tastiera è sempre in primo piano. La voce di Jòn alterna come sempre clean a growl ed è sublime; va sempre alla ricerca della soluzione meno telefonata e il ritornello è facilmente assimilabile. Le parti pesanti sono ben dosate e i riff si susseguono con una semplicità disarmante; i molti cambi di umore non sembrano mai incollati tanto per ma hanno tutti una vita propria e un senso nelle composizioni, provare per credere. Si passa dalla pura brutalità agli acustici con tanto di flauti e chi più ne ha più ne metta; le strutture sono ovviamente complesse, ricercate e possiamo anche definire la musica dei Barren Earth come snob ed elitaria per una buona parte di uditorio; il risultato però è francamente di quelli massimi. The Ruby piazza in apertura un riff eccellente e coi suoi cinque minuti è il brano più corto del lotto. Il tiro è ottimo in fase strofa e il ritornello arioso sovrappone growl a clean in maniera vincente ed efficace. Il ponte complica le cose e l’assolo inquadra piuttosto bene il brano e traghetta verso il ritornello, impossibile non domandarsi se questa Ruby ricorrente sia o no la nipote di Mubarak. Further Down si assesta su un buon melodeath in apertura e il ritornello lo si canticchia praticamente al primo ascolto; il ponte e la seconda parte del brano sono stellari e riescono a far diventare il brano uno dei migliori dell’album. I toni diventano brutali, i riff passano dal doom all’headbanging e la conclusione con la ripresa del ritornello è da brividi.
Zeal è un altro pezzo da novata ed è introdotta dal pianoforte e dalla voce di Jòn; l’entrata in scena degli altri strumenti è quasi psichedelica e il crescendo sfocia in un brano oscuro e brutale, che sembra fare da ponte tra On Lonely Towers e il nuovo corso. I riff sono ottimi e il cantato è orientato al death più puro e old school; arriva una parte ariosa sul finale a cambiare inaspettatamente le carte in tavola e ad offrire una conclusione malinconica e riflessiva. Scatterprey è un brano piuttosto classico in casa Barren Earth, che però offre una partitura grandiosa unita a un ritornello riuscitissimo e in grado di rivelarsi un buon valore aggiunto; il ponte zeppo di dissonanze e con la doppia cassa ai mille all’ora farà felici un po’ tutti gli amanti dell’intricato andante e dimostra ancora una volta la maestria della band nel concepire e comporre musica di alto livello. Si rallenta il mood con Solitude Pith, la cui prima metà in acustico è di una bellezza disarmante e tra i migliori momenti offerti dai Barren Earth nella loro carriera. Il growl arriva a spezzare l’incantesimo, i musicisti lo percepiscono e furbescamente tornano all’acustico, anche se per poco. La parte centrale arabeggiante mantiene il livello altissimo e l’arrivo del metallo è ormai inevitabile e giunge come una liberazione; gli assoli fanno da ciliegina sulla torta e l’ultima parte del brano riprende i temi acustici dei primi minuti. Solitude Pith è un piccolo capolavoro, non privatevene.
Dysphoria apre il trittico finale in acustico e con un piccolo campionario di armonizzazioni; le clean nella strofa sono molto dissonanti e non riuscitissime, migliorano però dopo poco e non ci si fa più caso. Le melodie qui sono piuttosto semplici e trovano miglior fortuna nel break centrale, che offre un buon respiro e mantiene alta l’attenzione; molto molto bello invece il finale inizialmente acustico poi zeppo di assoli e momenti più memorabili rispetto alla prima parte del pezzo. Spire è un buon mid tempo che accelera le ostilità e si rivela un’ottima variazione portando sul piatto un po’ di sana sporcizia; si torna poi alle clean, anche qui tecnicamente buone quanto difficilmente assimilabili e l’assolo è ben concepito. La parte centrale è grande prog e le dissonanze alla voce trovano un senso tra percussioni e arzigogoli vari; il finale è brutale e trascinante. Withdrawal è una ballad e conclude le ostilità in maniera pacata, soffusa ed elegante. Il brano è ovviamente acustico e offre grandi melodie unite a un arrangiamento struggente e malinconico; per quel che ci riguarda, un degnissimo finale.
Tirando un po’ le somme, è veramente difficile trovare dei difetti all’ultimo lavoro dei Barren Earth, tranne quelli che da sempre li accompagnano: l’essere troppo bravi e l’essere arrivati dopo. Il primo ovviamente inficia le composizioni rendendole complesse e risultando quindi fuori luogo in un periodo storico dove si fa di tutto tranne che fermarsi ad ascoltare in maniera approfondita; gli Opeth sono venuti prima, gli Edge Of Sanity ancora prima e in un certo senso si potrà sempre dire questo anche se il livello è altissimo. Dei vincenti di non successo, ecco cosa sono i Barren Earth, uno dei tanti fenomeni inspiegabili della nostra musica preferita. In ogni modo A Complex Of Cages è un disco con la D maiuscola e prende anche un paio di punti in più del suo predecessore, dategli un’opportunità.