Recensione: A Disease for the Ages

Di Giuseppe Abazia - 26 Maggio 2008 - 0:00
A Disease for the Ages
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Anno: 2008
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80

I Mourning Beloveth si sono dati al doom epico. Beh, non proprio, a dire il vero. Ovviamente voleva essere provocatoria esagerazione (tanto più che i Mourning Beloveth sono uno dei gruppi di punta del death-doom), ma tale è stato lo stupore nell’ascoltare la squillante tonalità degli inserti di voce pulita che è stato questo l’ironico pensiero che mi è subito balenato per la testa. Ma procediamo con ordine, e prima di svelare le novità che questi doomsters irlandesi ci hanno riservato per il loro ultimo full-length A Disease for the Ages, tracciamo una breve storia di questo importante gruppo.

Nati nel 1992, i Mourning Beloveth giunsero al traguardo del primo album soltanto quasi 10 anni dopo, nel 2001, con l’eccellente Dust (prima di esso, giusto un paio di demo). Il debutto fu di quelli col botto: pur non inventando nulla di nuovo, si distingueva per le sue canzoni lunghe, articolate, giocate su una sofferente lentezza spezzata da aperture melodiche e sezioni più aggressive. Un anno dopo vide la luce The Sullen Sulcus, un ulteriore passo in avanti rispetto a Dust: le canzoni si fecero più complesse, le melodie più ricercate, la produzione più potente. Insieme al suo predecessore, The Sullen Sulcus costituisce un vero gioiello di death-doom. Poi, nel 2005, qualcosa andò storto. Il terzo disco, A Murderous Circus, era un platter certamente non brutto, ma privo della consueta ispirazione, rinchiuso in una lunghezza non più al servizio di melodie interessanti e coinvolgenti, ma che non di rado sfociava nella prolissità. Dopo quella prova sottotono, A Disease for the Ages era un album importante, poichè avrebbe determinato se la crisi era stata solo un episodio passeggero, o un cancro più radicato. Fortunatamente, la ripresa è stata notevole.

Ma non perdiamo tempo in ulteriori preamboli: in apertura si accennava a fantomatiche clean vocals dalla vena epica, e immagino che questo elemento di novità sia quello che maggiormente stia solleticando la curiosità dei doomsters in ascolto. Chi conosce i Mourning Beloveth sa bene che la voce pulita – opera del chitarrista Frank Brennan – ha sempre fatto parte, solitamente in dosi piuttosto ridotte, del loro sound; da questo punto di vista nulla di nuovo. Ciò che rappresenta una rottura rispetto al passato è il modo in cui viene utilizzata: sebbene sempre relegata a brevi sezioni (scelta azzeccata, altrimenti si rischiava di cadere nella ripetizione), essa si ritaglia ora spazi leggermente più cospicui, e lo fa con linee melodiche interamente cantate con una tonalità alta ed enfatica, che l’avvicina – per l’appunto – a quella di un tipico gruppo doom epico. Sebbene questo espediente possa far storcere il naso ai primi ascolti, ben presto ci si rende conto che rappresenta, invece, un’interessante novità in grado di aggiungere una nuova dimensione al sound. Il lead vocalist Darren Moore, da parte sua, si conferma un growler straordinario, dotato di grande espressività, ed in grado di modulare con estrema naturalezza i suoi ruggiti ora verso tonalità più profonde, ora verso urla strazianti.
Per il resto sono i cari, vecchi Mourning Beloveth: lentezza sfibrante, chitarre potenti e asciutte, ritmi estremamente cadenzati. Proprio a riguardo delle chitarre, c’è da rimarcare un deciso miglioramento rispetto a A Murderous Circus: abbandonata la produzione eccessivamente pulita e chirurgica che caratterizzava quel disco, adesso il loro suono ha recuperato quella sporcizia e quella cupezza che infinitamente meglio s’addicono a musica come questa. Inoltre stavolta sono state registrate due tracce di chitarra aggiuntive, il che dona al sound una pienezza decisamente maggiore.
Le canzoni, come nella consolidata tradizione Mourning Beloveth, sono tutte molto lunghe, ma di una lunghezza stavolta non prolissa, poichè supportata da melodie valide e coinvolgenti. Pochissimi i cambiamenti di tempo: la lentezza fa assolutamente da padrona, il che probabilmente indirizza questo disco agli appassionati più intransigenti del doom, mentre potrebbe risultare indigesto per chi non è abituato a questa musica. D’altra parte, l’interesse è mantenuto costante grazie ad espedienti come inserti acustici e la già citata voce pulita, ma soprattutto grazie ad una ispirazione pienamente ritrovata, che ha permesso al gruppo di forgiare canzoni dalla grande potenza emotiva e sonora.

Ritorno in grande stile per i Mourning Beloveth, dunque: la parziale delusione data dal precedente disco può dirsi completamente perdonata. Stavolta il gruppo ha saputo giocare sapientemente le sue carte, trovando il giusto equilibrio fa la sfibrante oppressività che da sempre li caratterizza, e passaggi melodici atti a stemperare la tensione. A Disease for the Ages proietta nuovamente il gruppo nel novero delle stelle più brillanti del death-doom, un posto già meritatamente conquistato ai tempi di Dust e The Sullen Sulcus, ed è la conferma che i Mourning Beloveth sono un gruppo dal grande spessore artistico.

Giuseppe Abazia

Tracklist:

1 – The Sickness (13:08) (mp3)
2 – Trace Decay (08:46)
3 – Primeval Rush (12:44)
4 – The Burning Man (10:47)
5 – Poison Beyond All (10:31)

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