Recensione: A Fortress Called Home

Di Luca Montini - 28 Giugno 2024 - 22:53
A Fortress Called Home
Band: Seven Spires
Etichetta: Frontiers Music Srl
Genere: Power 
Anno: 2024
Nazione:
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80

Quarto lavoro per gli statunitensi Seven Spires, che escono sul mercato sotto l’egida di Frontiers Recors con un disco che fin dalla copertina si preannuncia come il più tetro ed oscuro della loro carriera decennale. Il gruppo di Boston ha saputo negli anni contraddistinguersi per uno stile ibrido, tra power, metal sinfonico ed incursioni black metal con scream e growl su doppia cassa e plettrata alternata. Una compagine aggressiva ma anche raffinata ed elegante, forte dello studio dei componenti al prestigioso Berklee College of  Music. La band è capitanata da Jack Kosto, chitarrista nonché produttore e principale arrangiatore, ed Adrienne Cowan, nome già noto ai fan del metal sinfonico come cantante live degli Avantasia di Tobias Sammet, nonché voce principale del progetto dei Sasha Paeth’s Masters Of Ceremony. La lineup del disco è inoltre composta dal bassista Peter de Reyna e dal batterista Chris Dovas che dopo aver registrato l’album ha lasciato la band per dedicarsi stabilmente ai Testament, subentrato al posto di un certo Dave Lombardo. Per questo motivo, ufficialmente, a partire dalle foto promozionali, oggi i Seven Spires sono formalmente composti dai soli primi tre artisti citati.

Entriamo nelle mura familiari, di “A Fortress Called Home”. Il titolo e l’artwork di questi tempi fanno un po’ pensare ad Elden Ring, ma non divaghiamo. Se in passato i Seven Spires erano in parte accusati di comporre subendo troppe influenze da generi differenti, senza mai prendere una direzione definitiva, oscillando in maniera folle tra momenti sinfonici ed angelici, virtuosismi tecnici e vocali, improvvise virate al black metal con il growl ostentato dalla straordinaria voce di Adrienne – personalmente lo scrivevo già dai tempi del primo disco, “Solveig” (2017) – e con qualche divagazione qua e là verso il pop, vedi brani del passato come “Succumb” e “Lightbringer”, in questo disco la band… ha ben deciso di fregarsene e continuare esattamente su questa linea, marcandola ulteriormente. Ma con caparbietà e coraggio. Molto rock.

Il risultato di questa scelta è il disco in oggetto di questa disamina. “A Fortress Called Home” è un album prolisso, granitico come la fortezza illustrata in copertina, che dopo l’intro eponima dal sapore antico ti spara subito un mattone di quasi otto minuti, “Songs of Wine-Stained Tongues” (titolo originalissimo, per un genere fin troppo spesso stereotipato), un roller coaster di emozioni ed imprevisti, cinematografico ed epico, in cui entra in scena anche la voce del nostro Alessandro Conti (Trick or Treat, Twilight Force), con il quale i ragazzi hanno condiviso il palco durante un recente tour. Un brano elaborato e non immediatissimo, decisamente inusuale come opener, che lascia spazio al singolo “Almosttown”, molto più catchy nelle linee melodiche, con un refrain tipicamente gentile come da manuale cowaniano, ma che non si esime, come del resto tutti i brani del lotto, ad attraversare un momento più cupo in growl, che ci accompagna in un crescendo fino al solo di Kosto. Molto interessante.

I momenti power che una volta portavano la band ad essere assimilata a gruppi come i Kamelot sembrano diminuire, in favore di un black sinfonico nichilista e opprimente, come il mid-tempo “Impossibile Tower”, o la tiratissima “Architects of Creation”, tra i brani più forti del disco, in cui la band mette il turbo stile Cradle of Filth con il NOS, con sezione ritmica serratissima tra batteria linee di basso,  per raggiungere con lento incedere il grido esplosivo di Adrienne che fa da ritornello. Notevole.

Altri brani che meritano sicuramente un ascolto sono l’onirica “Love’s Souvenir”, che ci trasporta dalle sponde ebbre di un sogno tumultuoso all’abisso del peggiore tra gli incubi, la caustica “Portrait of Us”, che fa propri gli stilemi più melodici della band e la successiva “Emerald Necklace” (of Boston), una quasi-ballad dal sapore celtico con tanto di cori, cornamuse ed archi che cresce di intensità con una prova straordinaria della Cowan, a rimarcare la complessità lirica e compositiva di questi giovani artisti del Massachusetts. Complessità che rischia di essere anche il punto debole del lavoro, caratterizzato da brani che si attestano mediamente sui cinque minuti di lunghezza.

Concludiamo la disamina con il singolo “The Old Hurt of Being Left Behind”, a rimarcare la varietà offerta dalla band (a partire dai titoli), altro singolo decisamente rappresentativo del platter, più piratesco che ricorda quasi i Månegarm (stavolta con la camomilla, però!), in cui la band procede con l’ultimo assalto prima dei saluti.

A Fortress Called Home” è un disco che va apprezzato in primis per il coraggio col quale la band continua ad esplorare nuove rotte artistiche e compositive senza pregiudizi, rifuggendo le facili etichette delle quali il mercato è ormai saturo: la sua natura strutturale richiede più ascolti per essere apprezzato appieno, e siamo certi che l’impresa non sarà garantita a tutti gli avventurieri. Un album caparbio, recalcitrante, che per un istante ti offre il guizzo di una luminosa melodia e poi subito la nasconde dietro una pesante coltre di impenetrabile oscurità. L’impressione all’ascolto è quella di un disco sentito, sofferto, maturo al punto giusto, molto personale nei temi trattati e nello stile adottato che rafforza l’identità di una band per sua natura multiforme e sfaccettata, con un cuore nero pulsante racchiuso tra le imponenti mura di una fortezza – chiamata casa.

Luca “Montsteen” Montini

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