Recensione: A Grounding In Numbers
Considerando terribilmente presuntuoso il tentativo di spiegare chi siano e, soprattutto, cos’abbiano rappresentato i Van der Graaf Generator per il panorama musicale (inglese e non) negli anni settanta, e ritenendo inoltre vano lo sforzo di condensare in poche parole una carriera iniziata nel lontano 1967 (seppure a lungo interrotta) il consiglio diretto a chi intende iniziare, solamente ora, ad accostarsi a questa immensa band di Manchester è quello di cercare altrove le note biografiche e, nondimeno, di ascoltere almeno il minimo sindacale della relativa discografia, vale a dire The Least We Can Do Is Wave To Each Other (1970) e Pawn Hearts (1971).
Com’è vero, d’altronde, che dovrebbe essere assolutamente normale, per chiunque sostenga (o millanti) di avere una benchè minima cultura musicale, conoscere piuttosto bene il leggendario nome di Peter Hammill.
Tralasciando la storia e focalizzando l’attenzione sul lasso di tempo che va dalla reunion del 2005 (con la release di Present) ad oggi, si può affermare, senza grossi timori di trovare qualcuno in disaccordo, che A Grounding In Numbers è di gran lunga il migliore dei tre lavori editi in questo periodo. Per la seconda volta senza i meravigliosi fiati di David Jackson, i Van der Graaf Generator aggiustano il tiro dopo Trisector del 2008 (non male, nonostante un’indecisione di fondo sulla direzione da prendere senza David) e mettono assieme un ottimo disco, nel quale riversano sì tutte le caratteristiche che, nel tempo, hanno reso unico il loro modo di concepire la musica, ma lo fanno con i piedi ben piantati nel terreno del presente.
Pezzi brevi o brevissimi, dunque, ma dentro i quali è condensata efficacemente l’oscurità che ha sempre permeato la musica del gruppo inglese. Con la solita idiosincrasia di Hammill & co. per le facili melodie, A Grounding In Numbers sembra, al pari di tutta la discografia dei nostri, che ti si attacchi addosso fin dai primi ascolti, sussurrandoti ossessivamente: “ascoltami, riascoltami, non smettere…”. Solo assecondandolo se ne può cogliere la moltitudine di sfaccettature nascoste, perlopiù, in arrangiamenti solo apparentemente semplici.
Senza pretendere di fare paragoni impossibili col glorioso passato dei tempi di Pawn Hearts, se ne può però ritrovare l’anima arida che da sempre contraddistingue le composizioni del “Generatore“, con un occhio di riguardo in meno per una prolissità che si è andata col tempo perdendo, favorendo la crescita di un’eleganza, essenziale e indiscutibile, che raggiunge il suo apice proprio qui, tra le note scarne di A Grounding In Numbers.
Verrebbe da dire, dopo qualche ascolto non proprio attento, che la musica dei Van der Graaf Generator si è fatta minimale; eppure farlo non renderebbe giustizia ad una ricchezza artistica che, piano piano, emerge con forza dagli arrangiamenti eleganti e studiati nel minimo dettaglio dai tre (per la prima volta accreditati alla pari del songwriting di tutti i pezzi).
I contenuti, nello specifico, assumono una molteplicità di direzioni, con contrasti così forti che sarebbero potuti apparire come inconciliabili; eppure, legati da uno stile unico e inconfondibile, finiscono per confluire in un bizzarro equilibrio.
Se il garbo della meravigliosa ballata Your Time Starts Now e la grazia di Mathematics colpiscono immediatamente dritti al centro, ci vorrà del tempo per capire cosa ci faccia una chitarra presa in prestito dagli Stones (what?) in apertura (e ad accompagnare il ritornello) dell’inquieta Highly Strung.
Appare immediatamente chiaro come nessuno reciti la parte di assoluto protagonista: alla voce sui generis di Hammill, che sfoggia anche un ritrovato feeling con la chitarra, si sommano le tastiere e l’organo di Hugh Banton (vero trait d’union di questo lavoro) nonchè i tempi dispari del mai troppo lodato Guy Evans, musicista capace di dar lustro a qualsiasi pezzo nel quale le sue bacchette percuotano qualcosa.
Nella breve strumentale Red Baron, inquietante ed oscura, è proprio Evans a reggere il timone durante due minuti abbondanti di pura inquietudine sonora.
Bunsho è probabilmente il brano che più si avvicina alla concezione (unica) di progressive che la band aveva nel suo periodo di massimo splendore, con la sua calma apparente sotto la quale cova una latente tensione che finisce per prendere a poco a poco il sopravvento. Ancora più strutturata sul prog che fu è Snake Oil, nella quale però la smania di sintesi finisce per far confluire in poco più di cinque minuti quello che, un tempo, avrebbe richiesto il tempo di una suite. Il risultato desta qualche perplessità, anche se indubbiamente è un gran bel pezzo e, immancabilmente, farà la felicità dei più nostalgici.
Splink è il secondo e ultimo breve pezzo strumentale, con Evans a dettare un tempo del quale, in totale dissonanza, le mani di Banton sembrano completamente disinteressarsi. Il rock riappare, con la chitarra nuovamente in primo piano, nella discreta Embarassing Kid, creando un contrasto piuttosto marcato con la seguente Medusa, la quale, con la voce bassa e doppiata e l’ossessivo accompagnamento tastieristico, sembra un sunto dell’arte ansiosa e opprimente dei Van der Graaf Generator.
Nell’infinito gioco di contrapposizioni di cui A Grounding In Numbers è imbevuto, a un brano scarnificato come la succitata Medusa segue la frizzante Mr. Sands: puro progressive inglese settantiano (sponda Canterbury) nel quale l’organo di Banton (per altro convincente anche al basso) chiama a sè i riflettori. La breve Smoke è un piccolissimo compendio dei pregi dell’intero disco: in apparenza piuttosto banale, raccoglie una buona quantità di particolari che sfuggono nell’immediato ma emergono alla distanza, riuscendo a farne apprezzare sempre più i contenuti.
C’è ancora tempo per il delirio di tempi dispari intitolato 5533, forse non indimenticabile ma ottimo per rendere ancor più ricco di sfumature un album già sorprendente, prima del gran finale rappresentato da All Over The Place. In questi ultimi minuti esce ulteriormente allo scoperto la teatraltà di Hammill che, supportato da arrangiamenti dalla scintillante perfezione, libera la sua anima drammatica per un’ulteriore, angosciosa e commovente, testimonianza della sua arte.
L’improba sfida che attendeva i Van der Graaf Generator alla composizione di A Grounding In Numbers consisteva, evidentemente, nel trovare un equilibrio musicale soddisfacente per sopperire alla mancanza di David Jackson, colmando le lacune sonore che tale assenza per forza di cose lasciava. Lacune che apparivano evidenti nel predecessore Trisector, nonostante questo disco fosse, come già detto, tutt’altro che da buttare. Si può senza dubbio affermare che la sfida è stata vinta, anche con l’aiuto (perdonabile e nient’affatto pleonastico) di alcuni accorgimenti autoindulgenti che, tuttavia, non cavano dal contesto contemporaneo la musica dei tre. Consiste proprio in questo uno dei punti di forza del nuovo album: nel connettere brillantemente passato e presente, riuscendo a non snaturare l’unicità sonora dei gloriosi lavori settantiani e adattandola, nel contempo, all’attualità.
A questo aspetto vanno aggiunte le ispirate performance dei singoli (Evans su tutti) e ancor di più l’esecuzione d’insieme: un armonico aggregato di tecnica, emozione ed eleganza.
Come il codice binario che fa da sfondo alla sua copertina, A Grounding In Numbers è una semplificazione di qualcosa che, nella propria codifica, nasconde una ben più vasta complessità. Naturalmente questo richiede tempo e dedizione; non concederglieli sarebbe, però, un’occasione mancata.
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Tracklist:
01. Your Time Starts Now 4:15
02. Mathematics 3:38
03. Highly Strung 3:36
04. Red Baron 2:23
05. Bunsho 5:03
06. Snake Oil 5:21
07. Splink 2:37
08. Embarassing Kid 3:07
09. Medusa 2:12
10. Mr. Sands 5:22
11. Smoke 2:30
12. 5533 2:42
13. All Over The Place 6:04
Line-up:
Peter Hammill: voce, chitarra, pianoforte e tastiere
Hugh Banton: organo, tastiere, basso e bass pedal
Guy Evans: batteria