Recensione: A Kindness Dealt in Venom

Di Daniele D'Adamo - 13 Settembre 2024 - 16:58

A Kindness Dealt in Venom“. E scese l’oscurità. Il terzo full-length dei Contruct Of Lethe si può affermare con certezza che sia legato a varie leggende/miti in cui la fine del Mondo si manifesta, anzitutto, con la sparizione del Sole.

Luce. Spenta grazie a uno stile multiforme, che pesca a piene mani da altri generi, anche estranei al metallo. Stile che tuttavia non lascia mai scivolare via ciò che lo anima dall’inizio della sua vita: il death metal. Sperimentale, questo sì, ma sempre abbarbicato ai principi cardini che ne reggono la struttura portante.

La percezione del predetto stile è immediata per comprenderne l’umore. Che è oscuro, tenebroso, orrorifico. Ma, una volta scrostato l’involucro artistico, si può entrare nel Reame della Morte. La band statunitense fa davvero paura, in ciò. In certi momenti scatena il suo death alla massima velocità (“Contempt“), per fiondarsi in un altro Universo, ove sono vigenti regole diverse da quelle note. Inaspettatamente, però, la furia degli elementi si placa in occasioni di break alieni alla ragione metallica, in cui si possono udire principalmente echi di jazz e ambient.

La dimensione di “A Kindness Dealt in Venom“, però, come corrente di pensiero primaria, è quella dell’obbedienza alla furia scardinatrice. La quale, spesso unita alle divagazioni spurie al death, genera un’enorme quantità di energia che spacca letteralmente gli speakers (“Denial in Abstraction“). Kevin Paradis, il batterista, stampa BPM da follia, grazie a un perfetto utilizzo dei blast-beats. Ovviamente non è solo questo.

Difatti, come più su accennato, il disco si rivela difficilmente prevedibile, in termini di sound. La sua caleidoscopica natura lo rende talmente vario che se non si resta concentrati, si perde la via maestra. In esso spuntano addirittura agghiaccianti cori, magari accompagnati dall’elettronica (sic!). Oppure percussioni tipo tribale che fingono da intro a “I Am the Lionkiller“, per un risultato davvero originale, sempre e comunque nel rispetto dei dettami arcaici del death metal.

Oltre a Paradis occorre assolutamente rilevare con decisione il lavoro svolto da Tony Petrocelly (chitarra, basso, sintetizzatore) e Patrick Bonvin (chitarra), artefici in primis di questo sound così atipico relativamente alla usuali normative. I riff, difatti, presentano una forma complessa, camaleontica, che nel loro DNA non hanno nessuna informazione di cosa sia la melodia.

Riff che si scatenano entro un’atmosfera scura, greve, pesante, soffocante. Ove, inoltre, saettano le pennellate degli assoli e delle divagazioni soliste delle sei corde. Assieme, come detto, a cospicui grovigli di ambient la cui esistenza si deve al sintetizzatore di Petrocelly, manipolato spesso e volentieri nei meandri asfittici di un sound che non ammette linearità, semplicità.

Il tutto, per un risultato finale che mette a dura prova la resistenza del cervello, parecchio impegnato a districare una matassa magari esageratamente ingarbugliata. Anche la voce, difatti, non è sempre adesa al classico growling, regalando linee vocali anch’esse non lineari (“Raw Nerve, Iron Will“). Certo, quando Kishor Haulenbeek libera la sua ugola più profonda, in genere si torna a percepire un death metal più convenzionale. Il quale non dura un granché, travolto da questa incrollabile voglia di sperimentare, di divergere dalla linea retta della normalità.

L’insieme delle canzoni, com’è facilmente prevedibile, obbediscono al 100% allo stile che raffigura il combo della Virginia. Trionfano le più ardite disarmonie, le più complicate dissonanze; sparse lungo tutto l’LP per accoppiarsi alle tante pulsioni progressiste. Per via di un sound lambiccato, è molto difficile riuscire a discernere le singole caratteristiche ma, dopo parecchi ascolti, ecco che esse prendono vita e riuscendo in tal modo a intravederne l’anima.

Disco difficile da digerire, “A Kindness Dealt in Venom“. I Contruct Of Lethe hanno dato vita a un’opera assolutamente non convenzionale – forse troppo – per cui ci si può perdere, nella buia foresta del loro suono così complicato. Però, se non si molla la presa, si può godere di un qualcosa praticamente unica nel suo genere.

Daniele “dani66” D’Adamo

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