Recensione: A Life To Die For
Nel corso della loro carriera, che ha ormai superato i vent’anni di durata (traguardo celebrato con la pubblicazione della mastodontica raccolta 20th Anniversary), i Royal Hunt non hanno mai disdegnato la sperimentazione di nuovi stili: la creatura di André Andersen ha, infatti, spaziato dalle sonorità fortemente AOR degli esordi a quelle più puramente prog metal abbracciate nel nuovo millennio, senza dimenticare la breve fase hard rock con Mark Boals alla voce. Tuttavia i lavori più amati da gran parte dei fan sono quelli di metà anni ’90, distinti da una fortissima impronta sinfonica e dalla splendida voce di D.C. Cooper, rimasto dietro al microfono solo per due album, “Moving Target” e “Paradox”: tanto è bastato per consacrare i Royal Hunt come potenza del prog europeo. Dopo ben 13 anni di assenza, Cooper è stato protagonista di un clamoroso ritorno tra le file della band danese: il primo frutto del ritrovato sodalizio è stato “Show Me How to Live”, ottimamente accolto dai fan e seguito due anni dopo dall’oggetto di questa recensione, intitolato “A Life to Die for”.
Così come il predecessore, “A Life to Die for” riprende il discorso interrotto nel 1998 con l’abbandono di Cooper, presentando nuovamente le ormai classiche orchestrazioni pompose e articolate che li hanno resi uno dei gruppi più riconoscibili nel panorama progressive. La partenza è affidata al pezzo più lungo dell’album: “Hell Comes Down from Heaven” dopo una breve introduzione esplode in tutta la sua drammaticità, rivelandosi sin dalle prime battute una composizione maestosa e solenne. Le idee ci sono e a tratti convincono anche tanto, ma l’opener sembra trascinarsi in modo un po’ troppo forzato e non si fa fatica a sentire una certa ripetitività; più concisa e rilassata invece la successiva “A Bullet’s Tale”, che si distingue per la grande prova di un D.C. Cooper in forma smagliante e ancor di più per un assolo killer di Jonas Larsen, nonostante un ritornello leggermente ridondante.
L’anima più teatrale dei Royal Hunt spicca con prepotenza in tracce come “Sign of Yesterday”, che ricorda in qualche modo alcuni episodi dei Place Vendome più romantici e nella quale Cooper e Larsen giganteggiano ancora una volta, oltre che in “One Minute Left to Live”, il cui titolo rende alla perfezione l’urgenza delle melodie, fiere come in nessun altro brano di “A Life to Die for”, mentre “Running Out of Tears” sembra una bizzarra ed affascinante rivisitazione di un pezzo AOR in chiave orchestrale.
Dopo la disperata power ballad “Won’t Trust, Won’t Fear, Won’t Beg” si arriva al piatto forte: la title track conclusiva si apre con un riff intrigante intorno al quale si costruisce rapidamente un convincente muro sonoro. Le melodie sono quelle giuste e il ritornello è uno di quelli che si stampano in testa dopo mezzo ascolto; l’aggiunta di alcune parti strumentali particolarmente evocative ed un finale vincente la rendono sicuramente uno dei pezzi migliori della storia dei Royal Hunt.
“A Life to Die for” è l’ennesimo centro di un gruppo che è ormai una garanzia per gli appassionati del prog metal a tinte sinfoniche: continuando sulla scia del precedente “Show Me How to Live”, Andersen e soci hanno affinato ancor di più il solito equilibrio tra melodia, teatralità ed eleganza, nonostante qualche sporadico momento di stanca. Fortemente consigliato, in attesa del prossimo capitolo della già soddisfacente riunione tra i danesi e D.C. Cooper, che, siamo certi, si rivelerà un’ulteriore fonte di godimento per gli amanti del genere.
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