Recensione: A Light In The Dark
Diciamolo subito: se il disco in questione ha potuto ritagliarsi visibilità, questo è dovuto alla presenza in line up di Max Portnoy, figlio dell’ex batterista storico dei Dream Theater, il quale ha fortemente caldeggiato la carriera musicale del suo erede.
Il giovane Max ha iniziato a suonare seriamente la batteria a otto anni e oggi si ritrova con un minimo di esperienza alle spalle; al contempo coltiva anche una sana passione per il cinema.
Nell’epk diffuso dall’InsideOut i toni si fanno entusiastici, si parla di una band di ragazzi prodigio dediti al miglior progressive metal, attivi nella Lehigh Valley Area (Pennsylvania). Max Portnoy, Ryland Holland, Kris Rank e Thomas Cuce si sono incontrati all’età di 13 anni e hanno iniziato a suonare in locali della zona. L’anno successivo hanno registrato il loro primo Ep di tre canzoni. Successivamente hanno rilasciato un video per “Fortune Cookie,” brano risibile, con camei di Dee Snider (Anthrax), e Chris Jericho, oltre che un Mike Portnoy “cattivissimo”.
Continuando nell’autopromozione online i Next To None hanno raggiunto circa 70000 visualizzazioni su YouTube e 10000 like su Fb. Hanno aperto concerti per The Winery Dogs, Adrenaline Mob, Virgil Donati e Felix Martin, e hanno partecipato al Warped Tour e al Progressive Nation At Sea 2014.
Buon curriculum, sì, però lo zampino di Portnoy Senior è tanto palese quanto imprescindibile. Nell’estate dello scorso anno i quattro adolescenti (tra i quindici e sedici anni) hanno deciso di stupire, sono entrati in studio pronti per registrare il loro primo full-length. A Light in the Dark è stato prodotto da Mike Portnoy e come special guest troviamo niente meno che Bumblefoot (Guns N’ Roses) e Neal Morse.
Ma la musica sarà all’altezza? Scopriamolo di seguito.
L’opener è ambizioso, con i suoi quasi dieci minuti di lunghezza. Tutto inizia con un suono di pioggia scrosciante e mesti rintocchi di campana, seguiti da armonie struggenti di tastiera. Rullata di Portnoy e i giochi si fanno metal, con chitarre droppate e atmosfere che richiamano certi Dream Theater del nuovo corso. “The Edge Of Sanity” è uno dei migliori brani in scaletta, ma non raggiunge vette qualitative indimenticabili. Le ritmiche heavy non sono male, pessimo, invece, il trattamento delle voci: Cuce al microfono alterna scream a parti in clean, ma la sua ugola risulta ancora acerba. Il refrain è ficcante, ma stucchevole, con seconde voci baldanzose e doppia cassa. Non manca l’eclettismo, non male da questo punto di vista, all’inizio del sesto minuto, un break à la Haken intriso di follia prog. Si respirano, poi, qua e là sonorità djent, mentre le tastiere sono quelle infide di Jordan Rudess in Train Of Thought. Nella seconda parte del brano trovano spazio arrangiamenti semiacustici di chitarra; l’assolo della 6-corde al min. 7:20 è tecnico, ma con un minimo di originalità. Il sound resta pesantissimo, altro che loudness war… Gli ultimi secondi ripropongono il refrain.
Un riffone sporco in apertura di “You Are Not Me”, Portnoy ancora alle prese con il doppio pedale. Scream aggressivo nelle strofe, poi di nuovo il clean nel ritornello, in perfetta simmetria. Il pezzo prosegue prevedibile, il mixaggio della batteria risulta troppo alto, alcuni acuti in scream sanno di death metal.
“Runaway” parte cadenzata, Cuce inizia con voce pulita; il bridge è una non ben definita accozzaglia di cori, mentre il refrain punta sul binomio scream-clean, con esiti pessimi. Una traccia anodina, la parte centrale strumentale è scarna e manca di mordente. Neal Morse prova a risollevare le sorti, ma il suo assolo non basta per compiere il miracolo. Di nuovo rintocchi di campane in apertura di “A Lonely Walk”, insieme a note di pianoforte e la discreta presenza di Portnoy. Una ballad canonica, Cuce non è LaBrie, ma cerca di trasmettere un po’ di pathos. Difetto principale i ritmi troppo lassi, l’assolo semiacustico non è niente più che un esercizio scolastico. Si fatica ad arrivare in fondo al pezzo, che non ha un vero sviluppo emotivo.
I quattro ragazzi americani sono ambiziosi, dicevamo. Ne è riconferma “Control”, secondo brano dal minutaggio notevole, che ricalca la falsa riga dell’opener, dipanandosi in continui cambi di tempo circoscritti da un inizio e un finale canonici. Ficcante l’intro, mentre il guitarwork resta pesantissimo; Portnoy imita alla perfezione certi fill del padre, laddove Cuce resta l’anello debole del combo. Al min. 4:30 si può ascoltare il miglior Portnoy del disco, poi di nuovo voce in scream. Due minuti dopo, un break prelude a una ripartenza bluesy con cambio di atmosfere. I NtN danno sfogo alla loro creatività, largo, dunque, al wah-wah, tastiere imbizzarrite e rullate a non finire di Portnoy. La sezione cadenzata all’inizio del nono minuto è puro djent metal. Un pezzo fin troppo zeppo, con una sezione strumentale preponderante.
“Lost” prende avvio con una melodia di tastiera, che rivisita il famoso tema di In The Hall Of The Mountain King di Grieg, segue un suono di gong e uno stacco deciso sul finire del secondo minuto. Portnoy resta la figura più in risalto, i ritmi si mantengono incalzanti, aleggia lo spettro dei Metallica; Cuce, curiosamente, entra in scena solo a metà brano. Sul finale un bell’assolo di tastiera videoludico.
Vera skip-song la successiva “Social Anxiety”, tre minuti e mezzo di inutilità musicale, con un trattamento schizofrenico della voci, davvero fastidiose. Sample con sirene di polizia per “Legacy”: ancora armonie meste, rintocchi di campane. Sembra che i NtN abbiano voluto echeggiare “Space-Dye Vest”, ma con risultati mediocri. Gran finale con “Blood On My Hands”, pezzo quadrato, con le solite seconde voci e campane qua e là. Gli unisoni a metà brano sono scolastici, ma danno un po’ di colore prog. a un brano fin troppo pesante e con testi francamente smagati per un band di adolescenti. Come bonus track la già citata “Fortune Cookie”, caldamente sconsigliata.
E così siamo arrivati fondo a più di un’ora di metal pesante e a tratti confusionario. I quattro adolescenti della Pennsylvania hanno buone potenzialità e sono in cerca di una propria identità sonora, al momento fatta di clean vocals e scream, ritmiche heavy, spruzzate djent e una chiara matrice progressiva. Thomas Cuce è bravo alle tastiere (soffre di dislessia e suona tutto a orecchio) ma il suo timbro vocale è ancora acerbo: il Michael Kiske del 1987 resta un’eccezione assoluta!
La band, in generale, dà il meglio quando non vuole strafare, ma sembra voler a ogni costo puntare sulla prolissità. Da ultimo era lecito aspettarsi anche qualche momento più ottimistico e svagato nell’ora di minutaggio, davvero troppo cupa la tracklist.
L’album è insufficiente, ma una luce resta accesa nell’oscurità, i Next To One possono solo migliorare e il tempo è dalla loro parte. Ne riparlimo al prossimo full-length.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)