Recensione: A Maze Of Recycled Creeds
La Francia: grande paese pieno di belle arti, paesaggi mozzafiato, buon cibo, “testate calcistiche”, di “oui je ne parlè english veri uel”, baguette, bollicine e ragazze. Dopo tutto questo, leggermente sotto c’è un aspetto che colpisce ulteriormente del paese d’oltralpe: quella facilità di sfornare gruppi esageratamente validi nel circuito metal come le galline con le uova. Pensiamo ad alcuni nomi senza sfornare un’enciclopedia intera: Hacride, Scarve, Gojira, Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Trepalium, Benighted e Klone (gli Alcest sono un’entità sotto esame dai maggiori biologi del pianeta) sono alcune delle più vive ed entusiasmanti realtà musicali, tutte inserite bene o male nel contesto più estremo del metal. Un perché ci sarà se così tanti estremisti arrivano dalla vecchia Gallia, credo. Tra tutte queste band appena citate come possiamo non ricordare i Gorod, una formazione che dopo undici anni di attività e ben sei album all’attivo (considerando Neurotropicks sotto il monicker Gorgasm), oggi più che mai riesce finalmente ad aprirsi la strada in mezzo alla moltitudine di gruppi copia incolla sfornando uno dietro l’altro alcuni degli album più complessi e stravaganti degli ultimi anni. Questo act, seppure in circolazione da molti anni, ha avuto un effetto tsunami su stampa e appassionati con Process of a New Decline, album da studiare e decodificare minuto dopo minuto; come uno sciame di locuste nella valle dei re spazza tutto e tutti innalzando prepotentemente la scala dei valori per questi musicisti. Con il successivo, ed ora penultimo, A Perfect Absolution, si è abbattuta sulla folla una valanga di tecnicismi e criptiche velature che hanno portato sull’intera scena globale una ventata di aria fresca, facendo dei nostri un caposaldo del technical attraverso album da manuale a pagina tre nel sacro tomo del perfetto tech-death. Fortunatamente i Gorod non copiano mai se stessi, ad ogni uscita non si sa cosa aspettarsi; oggi quindi, con il nuovissimo A Maze of Recycled Creeds, nessuno aveva la benché minima idea di quale sarebbe stato il risultato finale e l’hype sull’album non ha fatto altro che accrescere l’ansia d’attesa. Da gruppi di tale calibro aspettarsi l’inaspettabile è d’obbligo, ma questa volta il salto è stato lunghissimo e maestoso, tanto ampio che si può quasi pensare in certi momenti di non essere di fronte ai Gorod che sino a qualche anno prima tutti conoscevamo. Essere o non essere più, questo è il problema.
Progresso è la parola cardine di A Maze of Recycled Creeds, c’è così tanto progresso qua dentro che l’essere umano non ha ancora inventato il numero che quantifica le tonnellate di tecnicismi che sfondano l’orecchio ad ogni secondo. Un’ album ricco, corposo, spaccaossa e ciccione che ti sovrasta indelicatamente senza chiederti permesso prima di soffocarti tra il grasso che cola impetuoso; non facciamoci fregare però da un ascolto sufficiente e disinteressato poiché la botta rilasciata è sì forte, ma potrebbe essere paragonata ad una mano gigante che ti schiaffeggia con le unghie pittate di glitter. Un barocco avanguardistico che prende le migliori sfumature del più intricato tech-death moderno e le combina con quell’innata verve di ogni qualsivoglia band progressive quando cerca di saturare ogni secondo con peripezie e masturbazioni piene di note spesso e volentieri fini a se stesse. Prendendo come esempio alcune tracce lungo la tracklist quali Celestial Nature, The Mystic Triad of Artistry o An Order to Reclaim, la cosa che colpisce maggiormente è la tecnica combinata ad un ritmo accattivante, mai banale e chirurgicamente studiato al millimetro; d’altro canto se l’orecchio fa un sforzo maggiore e si concentra sulle plurime sfaccettature delle tracce è possibile notare come spesso i settori dei singoli brani vengano leggermente forzati, figli di un desiderio di vanità mai celato oggi messo a nudo più che mai. Non è un male questa brama di show-off, solamente rende la fluidità dell’insieme di difficile decifrazione dove un limbo creato da sperimentazioni e capacità indiscutibilmente sopraffine vengono mescolate in un calderone borbottante senza far prevalere questo o quel passaggio. I molteplici passi in avanti compiuti dalla band non vengono diluiti man mano lasciando l’acquolina in bocca al fruitore ma bensì riversati come olio bollette tutti insieme rischiando di non far apprezzare una sfumatura sull’altra. Altre canzoni come Dig Into Yourself, From Passion to Holiness o Rejoice your Soul hanno un groove interno che smuove ogni cellula cerebrale; brani che servono all’intero album per mostrarsi dinamico, moderno e purtroppo contemporaneamente trendy-fashion-style. I tempi della brutalità a tout cour dove non c’erano richieste di permesso e glitter sulle unghie sono passati definitivamente e quello che esce dall’intera durata del platter è un abbraccio alle moderne venature prog miscelate con una dolce brutalità. La prova dei singoli è da applausi a scena aperta, partendo dalla ottimale prestazione di Julien alla voce, passando per Mathieu alla chitarra solista sino al bombardamento offerto da Karole alle pelli si può tranquillamente porre il combo francese ai piani alti del palazzo di vetrocemento e sangue del death tecnico. Una domanda sorge spontanea riflettendo su questi fattori: come mai i singoli offrono il meglio del meglio se analizzati scissi dal gruppo, mentre insieme sul lungo tragitto questi ragazzi portano un organizzato chaos senz’anima? Belli senz’anima verrebbe da dire. La risposta il sottoscritto non la conosce ma ci si compiace perché, pur analizzando i dettagli al microscopio, il risultato è da applausi e questo nuovo sigillo di casa Gorod offre moltissimi lati positivi in saccoccia. Ultima ma non per importanza è la produzione che viene realizzata magistralmente offrendo quasi la possibilità di un dolby surround avanzato applicato a delle comuni casse stereo; probabilmente leggermente più sporca sarebbe stata ancora meglio, ma che ci possiamo fare noi se la tendenza è questa qui? “Vuoi arrabiartici o vuoi accontentartici e piacertici?” Ovviamente godiamone a pieno.
Complessivamente A Maze of Recycled Creeds è ottimo pur avendo perso quel fascino brutale che contraddistingueva i transalpini sino a qualche anno addietro; la strada per loro è in discesa, sicuramente continuando così non potranno fare altro che ampliare il loro spettro visivo andando man mano ad intensificare la percentuale prog. Quelle piccole differenze che risultano fondamentali ci fanno parlare di un prog-death piuttosto che di tech-death, dove non c’è il solo standard dell’estremismo portato ai massimi livelli ma una costante fluidodinamica tra death e contaminazioni varie ed impossibili, jazz su tutte, portando il risultato finale ad diventare un caleidoscopio di insane visioni terremotanti. Chissà cosa riserverà il futuro per i Gorod, per il momento godiamoceli così, con i loro glitter pittati, con questa raffinata brutalità che ci ricorda quanto nel bene o nel male in pochi oggi riescono veramente a rimanere personali e riconoscibili allo stesso momento pur seguendo le mode del momento.