Recensione: A Means to No End

Di Andrea Poletti - 27 Ottobre 2016 - 0:00
A Means to No End
Band: Destrage
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2016
Nazione:
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80

Essere grande significa essere incompreso.

Ralph W. Emerson

Ho questo foglio bianco davanti da mezz’ora e ancora non ho trovato il bandolo della matassa per progredire con questa recensione, forse dovrei iniziarla così con i dubbi e i pensieri che mi assillano; forse perché risulta difficile avere un pensiero fermo e conciso mentre in cuffia sto violentando i miei padiglioni auricolari con questo nuovo “A Means to No End”. Violentami con piacere, non sarò io a fermarti questa volta. Così mi lascio trasportare dalle sensazioni, bando alle logiche e al classico tema da quinta elementare, che leggi e rileggi, con concetti identici e il solo nome del gruppo differente. I Destrage non sono come gli altri gruppi diamine! Che vi piacciano o meno (gusto personale in primo piano) bisogna necessariamente ed oggettivamente dimenticare e ricordare contemporaneamente. Cosa? Non importa cosa ma come e perchè. Quando non comprendi è lì che la vera battaglia inizia. I Destrage sono incomprensibili ad un primo ascolto, quattro album compreso questo, che spruzzano fantasia ed eclettismo da ogni poro, una pentola ribollente di riffs, armonie, sfumature ed idee che diventano riconoscibili in mezzo a mille. La Metal Blade, che non è la prima scema che gira per strada, ci ha visto bene e conferma i nostri al secondo album, dove una bimba nel cielo dello spazio infinito, si ritrova con quattro farfalle sul viso. Vola mia cara, vola lontano anche per noi con mente e corpo! 

“Connector of nonsense

a means is what i am

nor dawn and no sunset

just a means to a no end”

Sono passati altri venti minuti, mi gratto i capelli e con una smorfia dentro me e me dico “ma come diavolo lo descrivo questo disco?” 

Paglia, caffè e ritorno…

A Means to No End” è un passo avanti, uno step forward verso lidi che potrebbero spiazzare alcuni fans di vecchia data, contemporaneamente avvicinando altri che prima non li avevano mai presi in considerazione. Progressive per estremisti ed estremo per progster; una miscela di influenze e sfumature che destrutturano la classica forma canzone per lasciare esplodere una furia cieca di estrema fattura, la differenza tra musicisti e muscanti non è mai stata più lampante che in questo caso specifico. Se l’intro ‘Titletrack’ ci regala qualche attimo di suspance basta poco per far nascere un aureo gibilo dentro il palato; mi spiace ma credo che descrivere ogni canzone singolarmente sia un danno, questo disco va preso ed assorbito tutto d’un fiato, per trovarsi a fine ascolto disorientato e in catalessi. “Cosa diavolo è successo?” puoi chiederti. ‘Symphony of the Ego’ e le sue sfumature sludge, ’Silent Consent’ con lo stacco tra 2:24 e 3:29 da alta scuola circense passando per l’hardcore di ‘Dreamers’ sino a concludere il tutto attraverso il magico ritornello centrale di ‘To Be Tolerated’. Ogni brano, ogni traccia e ogni stacco ha una sua precisa personalità che necessita e confluisce alla perfezione nei suoi fratelli e sorelle; uno dei due lentiipotetici, ‘Ending to a Means’, che va a braccetto con lo la ‘Titletrack’ e ‘A Promise, A Debt’ servono all’economia del disco come bilanciamento e contrasto. Bianco e nero, luce e ombra per sdogananre le sensazioni lungo l’ascolto dove le papille gustative danzano goliardiche. Tutto è paradossalmente collegato attraverso un groviglio di sovrastrutture musicali che mettono in dubbio ogni certezza, nata anche solo qualche minuto prima, ad ogni ascolto. Non giriamoci intorno, la verità è molto semplice: ogni volta che “A Means To No End” partirà nello stereo, qualche sfumatura nuova verrà alla luce e saremo obbligate a prestare un’attenzione maggiore rispetto ad altri album che solitamente scorrono felici e spensierati nell’auricolare.

Ciò che si nota in proporzione al precedente “Are You Kidding Me? No.” è una notevole diminuzione dell’istrionismo fine a se stesso, dove in passato tracce che andavo in ogni direzione, senza avere un fine comune, senza quell’unità che ci si dovrebbe essere oggi diventano più razionali e pesanti. I Destrage sono più coesi, più coerenti e la struttura dei brani fila in maniera più omogenea, senza quei passaggi eclettici che in passato venivano riproposti in differenti occasioni senza un filo logico preciso. Anche la produzione è stata modella con suoni meno diretti e “grezzi” per una scelta che favorisce maggiormente i bassi aumentando l’effetto “surround”; piccoli dettagli che nell’insieme offrono un’ascolto più nitido e chiaro sotto ogni aspetto.

Inaspettamente il foglio bianco è pieno di parole, frasi, concetti spontanei e di suggestioni date da “ascolti vissuti”; tirando le conclusioni ecco cosa si può ulteriormente aggiungere. “A Means To No End” è bipolare, anarchico e fuorilegge, un album senza regole scritte che vive dentro un suolo autoctono fatto di creatività e genialità; più maturo rispetto al passato ma sempre un passo avanti alla media. Una delle band più sopravvalutate e sottovalutate contemporaneamente, un concentrato di idee che non ha paragoni in Italia e all’estero. Se in passato avevate apprezzato la loro proposta, anche in questo caso con le dovute maniere, non avrete difficoltà ad amare quest’ultimo lavoro, in caso contrario avete sempre perso una grande occasione per andare oltre i soliti preconcetti. Geniali.

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