Recensione: A New Evil
E anche per i nostri amici Traghettatori è arrivato il momento di pubblicare un nuovo album. L’esordio auto-titolato dei The Ferrymen, datato un paio d’anni fa, aveva fatto rizzare le orecchie a più di un metallaro per via di una proposta musicale possente e strutturata, figlia di un robusto ma al tempo stesso melodico power metal dalle inflessioni heavy rock, che aveva raccolto pareri più o meno entusiastici un po’ dappertutto. Se devo essere sincero, così mi tolgo subito il pensiero, non ero rimasto particolarmente colpito dal suddetto esordio, che mi era parso un ottimo album, questo sì, ma un po’ troppo bello senz’anima e, in ultima analisi, non così eccezionale come mi ero aspettato vedendo i nomi coinvolti. Tornando on topic, c’è da dire che con “A New Evil” il super-trio continua la sua avanzata trionfale senza discostarsi dagli stilemi del power metal di impostazione europea che avevano caratterizzato il suo predecessore: un metal corposo e magniloquente in cui tastiere e chitarre si fondono sotto la supervisione di una sezione ritmica ricca e potente, con la voce roboante di Romero, sempre più in odore del mai abbastanza rimpianto Ronnie James, a sovrastare il tutto e avvolgere l’ascoltatore col suo calore vibrante. Anche in questo caso la resa sonora del trio si dimostra impeccabile, pastosa ed affilata, pronta a riversare dalle casse riff graffianti e melodie energiche; ciononostante, anche in questo caso qualcosa non ha, a detta di chi scrive, funzionato come doveva, e il vago sentore di un certo manierismo latente mi ha pervaso durante buona parte dell’ascolto.
Si comincia con “Don’t Stand in My Way” che, dopo un’apertura sinfonica maestosa, parte a spron battuto con ritmi arrembanti e cafoni spezzati di tanto in tanto dal ritornello più pacato e arioso. Il rallentamento che apre la strada al solo dona groove al pezzo, salvo poi tornare a velocità più consone al power metal in tempo per il finale. Una romantica melodia di piano apre la maestosa “Bring Me Home”, ruffianissima power ballad tutta power chord, melodie struggenti e tempi scanditi. La canzone scorre egregiamente, bilanciando alla perfezione parti delicate, momenti trionfali e passaggi più carichi di feeling, ma non ho potuto fare a meno di percepire le prime avvisaglie di quel manierismo di cui scrivevo poco fa aleggiare sulla composizione, sicuramente molto ben eseguita ma priva della scintilla che me la facesse apprezzare completamente. Si arriva ora alla title track, che con le sue melodie d’assalto e i tempi quadrati torna a suonare la sveglia dopo la passata iniezione di saccarosio. Anche qui i nostri si mantengono più aggressivi e minacciosi durante la strofa, per poi lasciare che la tamarraggine anthemica delle melodie si impossessi del ponte e del ritornello. Con “The Night People Rise” i nostri si mantengono più o meno sullo stesso registro, inserendo però nell’amalgama una velatura più inquieta durante la strofa. Le melodie si riappropriano piuttosto in fretta della canzone, conferendole il suo profumo di heavy rock (che culmina durante l’assolo) anche grazie agli inserimenti, quasi sempre sotto la superficie, del piano. Una melodia di Elfman-iana memoria introduce la scandita e graffiante “Save Your Prayers”, che incede perentoria grazie a riff affilati inframmezzati ad aperture più ariose. Il ritornello trionfale secondo me toglie un po’ di mordente alla canzone – che comunque si mantiene sempre sull’ottimo livello che contraddistingue il super-trio – ma qui si entra nel campo dei gusti personali. Il finale, affidato di nuovo alle melodie di scuola Danny Elfman, sfuma nell’apertura struggente di “Heartbeat”, sorretta da tastiere che mi hanno tanto ricordato certi Nightwish. La traccia, manco a dirlo, è un’altra ballatona dai toni languidi e i ritmi scanditi, rinforzata dalla classica alzata di tono nella seconda parte e salvata dal calore vocale di Romero e da un breve assolo dal buon feeling. I toni tornano a farsi minacciosi con “Our Own Heroes”, che a una strofa arcigna e quadrata sfumata di medio oriente contrappone un bel ritornello, enfatico e roboante. Bella anche la sezione strumentale, anche qui dal sapor mediorientale, che dona al pezzo quel pizzico di esotismo desertico che ci sta benissimo. Note delicate introducono “No Matter How Hard we Fall” che, dopo una doppia finta partenza, torna a ritmi solidi e sfacciati che tanto profumano di hard rock. Le improvvise accelerazioni interrompono la carica anthemica della canzone, che si mantiene molto melodica anche grazie al ritornello altisonante, introducendovi il giusto brio. “My Dearest Fear” rallenta di nuovo per insistere su un incedere sinfonico ed appassionato, consentendo a Romero di mettere in mostra una volta di più le sue abilità vocali sul tappeto sonico intessuto dai suoi colleghi, mentre con “You Against the World” i nostri tornano a sciorinare, almeno all’inizio, dei bei riffoni aggressivi. In realtà il pezzo segue, nel bene e nel male, il trend dell’album, picchiando un po’ di più durante la strofa per poi alzare l’asticella del trionfalismo e delle melodie d’assalto durante il ritornello, il tutto inframmezzato da fraseggi vagamente riflessivi. Chiude l’album “All we Got”, che strizza ancora l’occhio a un heavy rock ruffiano e, diciamo così, ammiccante miscelandolo con melodie propositive e solari, per porre il sigillo conclusivo all’album con la giusta nota di speranza.
Tirando le somme, è davero difficile trovare dei veri e propri difetti a questo “A New Evil”: i Ferrymen si confermano un power trio affiatato e decisamente talentuoso, perfettamente conscio dei propri mezzi e capace di scrivere canzoni solidissime, ottimamente strutturate e sicuramente accattivanti, in cui ogni strumento si ritaglia il suo spazio senza disturbare gli altri e contribuisce, così, ad assemblare un lavoro perfettamente bilanciato. Eppure… sì, c’è un eppure, perché al di là dei numerosi e indiscutibili pregi dell’album, “A New Evil” non mi ha convinto fino in fondo. Certo, i nostri sanno il fatto loro e anche volendo non riescono proprio a fare canzoni brutte, ma durante l’ascolto ho percepito più volte un certo grado di mestiere, un voler giocare sempre sul sicuro che, alla lunga, toglie mordente a “A New Evil” e ne priva le composizioni della giusta fame. Sia chiaro, resta senza dubbio un ottimo album, ma forse da questi tre signori mi aspettavo qualcosa di più che un brillante esercizio di stile.