Recensione: A place I don’t belong to
Davvero una piacevole sorpresa scoprire, anche se in ritardo, i Falaise. La band in questione, in effetti, è giunta in questo 2019, con questo “A place I don’t belong to”, alla sua terza prova di studio dal 2015, per cui non ci troviamo innanzi a dei debuttanti. A rendere più piacevole la sorpresa, poi, il fatto che il duo sia nostrano, per la precisione di Todi (città già letterariamente nota), in Umbria.
A livello sonoro i nostri sono portatori di una proposta che si può facilmente ascrivere al post black metal. Pur tuttavia, al di là dei canoni estremamente rigidi del genere, i Falaise hanno parecchio da dire. Se batteria, basso e growl riprendono in maniera relativamente pedissequa il black, con accelerazioni feroci e frequenti sfuriate, il guitar work attinge a piene mani dal post rock e, a tratti, allo shoegaze.
Le influenze sono molte, ma non risulta particolarmente utile elencarle in “A place I don’t belong to” ci troviamo innanzi ad un suono piuttosto peculiare. Un suono che accoppia, si è detto, la furia del black, alla dolcezza del post. Anche tracciare paragoni con l’atmosferic black non ha molto senso perché le tonalità sono ben distanti. A grandi linee, potremmo dire che i Falaise sono il punto di incontro tra Klimt 1918, Alcest e God is an Astronaut. Può sembra un po’ caparbia come descrizione, ma risulta difficile inquadrare al meglio la proposta del gruppo.
Alla luce di tale descrizione però non stupisce un fatto: dopo l’ascolto di “A place I don’t belong to”, piuttosto che la violenza del black, ciò che rimane impresso è un curioso misto di malinconia e dolcezza, che pure risulta più vicino all’indie che al metal. Ne vengono fuori composizioni strutturate, che però non faticano a rimanere in testa. Canzoni, si ripete, stranamente “delicate”, che mettono in luce una band raffinata e che, soprattutto, ha una direzione in cui andare. Non ultimo va notato che i Falaise dispongono di un vero batterista, mentre solitamente progetti simili si avvalgono di una drum machine – e questo è un elemento che fa molto a livello di “vivacità” sonora.
Gli episodi migliori da citare, ad esempio, possono essere ‘Once, my home’, ‘Leaves in the Wind’ o ‘Consumed souls’, ma va detto che il disco scorre a meraviglia, senza punti morti o parti riempitive. Un altro discorso, invece, il fatto che i Falaise tendano un po’ a ripetersi e che alcuni pezzi o alcune parti finiscano per somigliarsi un po’ troppo come ad esempio ‘When the sun was warming my Heart’ e la title track. Si tratta comunque di elementi che non scalfiscono la qualità di quello che è un ottimo disco.
Una prova, questa dei Falaise, che non viene da consigliare ai puristi del black o del post black (a patto che ce ne siano ancora) e che va invece suggerita a qualsiasi amante del metal e del rock alternativo (sempre che non abbia problemi con le screaming vocals). Bel colpo!