Recensione: A Possession Story

Di Marco Donè - 27 Novembre 2015 - 20:00
A Possession Story
Band: Black Inside
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
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62

A distanza di due anni dal disco di debutto, tornano a farsi sentire i napoletani Black Inside. Rispetto al precedente The Weigher Of Souls, il nuovo album, intitolato A Possession Story, presenta alcuni importanti cambiamenti. Il quintetto di Napoli si avvale infatti di un nuovo contratto discografico (passando dall’Underground Symphony alla fiorentina Red Cat Records) e torna in pista con una lineup rinnovata. Alla chitarra ritmica troviamo ora in formazione Eduardo Iannacone che, sostituendo Giuseppe Pandolfi, ritrova Vincenzo La Tegola e Brian Russo, già compagni d’avventura negli ormai defunti Midnight Madness.

 

Anche dal punto di vista stilistico, i Black Insinde, attuano qualche cambiamento. Pur rimanendo fedeli alle sonorità più classiche, il nuovo A Possession Story risulta più oscuro rispetto al suo predecessore, puntando maggiormente su un heavy metal dalle tinte doom in cui fanno capolino elementi di chiara matrice rock di influenza settantiana. Vengono meno, quindi, quegli up-tempo che avevano caratterizzato il disco d’esordio. I punti di riferimento sono facilmente individuabili già a partire dalla copertina. Il teschio che si staglia sullo sfondo, riporta alla mente quello usato dagli Iron Maiden in Brave New World e i colori cupi, freddi, che la caratterizzano, lasciano intuire che le atmosfere che vivremo durante l’ascolto saranno tutt’altro che happy. Una copertina che rispecchia alla perfezione quanto proposto dalla band. Infatti, una volta inserito il disco nel lettore e premuto il tasto “play”, è impossibile non riconoscere le influenze della NWOBHM – Iron Maiden in particolare – e Black Sabbath, su tutti.

 

Entrando nel dettaglio, A Possession Story si sviluppa in dieci tracce in cui i Black Inside, pur muovendosi all’interno di una proposta alquanto derivativa, mettono in mostra soluzioni interessanti. Le canzoni, salvo qualche sbavatura di cui parleremo in seguito, risultano ben strutturate e più di qualche traccia convince già dal primo ascolto. Tra di esse troviamo sicuramente la maestosa The Siege Of Jerusalem, song che riesce a mettere in mostra l’universo Black Inside in quasi tutte le sue forme. Non da meno l’oscura Too Dark To See, dove a dominare è la componente heavy/doom ben intervallata da un ritornello melodico i cui colori continuano ad esser sfumati di grigio. In Jeffrey, le atmosfere si fanno ancor più cupe in quanto è l’anima doom a dominarne gli oltre otto minuti di durata. La canzone risulta essere una delle più convincenti del disco, così come la title track in cui fuoriescono influenze Mercyful Fate e forti richiami ai Judas Priest nella parte più diretta e strumentale. Degno di nota il lavoro svolto dalle due chitarre in cui spicca, in particolare, l’operato di Brian Russo. Proprio le chitarre risultano importanti nell’economia del disco e gli assoli di Russo si presentano ben studiati, contraddistinti da ottime melodie in cui le classiche armonizzazioni Iron Maiden fanno spesso capolino. La sezione ritmica garantisce il corretto groove e Vincenzo la Tegola mette in evidenza le proprie capacità al basso. Riesce a farlo senza risultare invadente, ritagliandosi i propri spazi quando la struttura delle dieci canzoni che compongono A Possession Story glielo permette, mostrando, così, buon gusto negli arrangiamenti.

 

Ma le sbavature citate poco sopra, dove sono allora? Già le sbavature… Come dicevamo, la proposta dei Black Inside risulta derivativa e questo comporta che in più di qualche frangente affiori la sensazione del già sentito, arrivando a “omaggi” più o meno velati alle band di riferimento. Inoltre, la prestazione di Luigi Martino alla voce, risulta traballante in più punti, facendo, a volte, perdere fascino a canzoni dall’appeal avvincente. E’ il caso di I’m Not Like You, musicalmente tra le song più interessanti del lotto, la cui linea vocale e la prestazione del singer napoletano, le inseriscono, però, il freno a mano. Inoltre, la pronuncia inglese andrebbe migliorata. Anche la produzione solleva qualche perplessità. La batteria, in particolare, risulta penalizzata, priva di mordente e non riesce a donare la giusta enfasi alle dieci tracce di questo secondo platter. Rimangono, poi, da spendere due parole sulla conclusiva Pharmassacre. Canzone sicuramente ben strutturata e di pregevole qualità, le cui tonalità allegre, dettate da un’assenza della componente doom e da un ritornello estremamente rockeggiante, la fanno però uscire dal contesto più cupo e oscuro del disco.

 

Come considerare, quindi, questa nuova fatica dei Black Inside? Come un disco che mette in evidenza una band che è alla ricerca della propria identità, una band che ha trovato la direzione verso cui dirigersi ma, come se avesse timore ad intraprendere il viaggio, preferisce restare legata – a volte intrappolata – ai propri punti di riferimento. Le idee ci sono, bisogna però riuscire a svilupparle in una visione personale, traguardo sicuramente non semplice ma a cui bisogna ambire se si vuole fare la differenza. L’evoluzione, rispetto al disco d’esordio, c’è. La scelta di puntare su una proposta heavy/doom, inserendo, senza esagerare, influenze rock di matrice settantiana, se elaborata a dovere, può portare più di qualche soddisfazione alla band napoletana. Le possibilità e le capacità per migliorare ci sono. A Possession Story è quindi un punto di partenza. Un punto di partenza che potrà esser apprezzato dagli appassionati dell’heavy più oscuro. Con il prossimo disco, però, pretenderemo di più, molto di più.

 

Marco Donè

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