Recensione: A Pyrrhic Existence
Dopo averli lasciati al loro precedente album, nell’ormai sempre più lontano 2011, gli inglesi Esoteric, nati nell’ancor più remoto 1993, tornano a stendere un umido tappeto funereo grazie al nuovo disco intitolato A Pyrrhic Existence. Pyrrhic, che dal greco descrive una vittoria sofferta a tal punto da assumere le sembianze di una sconfitta. Ed è proprio questo il torpore che abbraccia un album che si erge sugli scudi del miglior Funeral Doom Metal che accosta sane parti death attraverso una discesa di oltre 1 ora e mezza nel centro di un abisso buio e che inesorabile ti risucchia sin dall’inizio della prima epica traccia intitolata Descent.
Ogni minuto scorre lento e incessante, con la violenta e marziale cadenza del ticchettio di un vecchio pendolo noncurante del trascorrere del tempo. Tra polvere, chitarre strascicate e la tetra voce di Greg Chandler, gli Esoteric viaggiano oltre lo spazio e il tempo, dondolandoci quasi lungo un viaggio cupo e dai contorni indefinibili come nella peggiore e più buia notte di nebbia autunnale. L’esperienza musicale di A Pyrrhic Existence non è affatto semplice, va affrontata con la capacità di approcciare un disco così consistente (in tutto, sono ben 3 LP) che indugia pazientemente senza per questo cadere nell’errore di una autocommiserazione, che in questo caso resta più emotiva piuttosto che meramente musicale. L’album è forte come un bicchiere di assenzio, ma invece che svuotare la mente e alleggerire lo spirito, trascina nel macabro disegno onirico messo su pentagramma da Chandler e Bicknell.
Superati i primi 27 minuti della opener, siamo ancora assaliti da un altro attacco che stavolta ha la capacità di alternare ritmiche anche più sostanzialmente death, con la più breve Rotting In Dereliction (15 minuti circa). C’è spazio anche per digressioni più o meno brevi, suoni che arricchiscono la descrizione dell’ipotetico ambiente che circonda l’ascoltatore, ormai immerso dentro un lavoro che non si limita ad essere soltanto musicale, ma una vera e propria messa in scena nichilistica e al tempo stesso soavemente ammaliante come il canto di una sirena maledetta.
La prima parte si conclude con l’intermezzo di Antim Yatra e con l’animo non ancora sazio di un’esperienza senza dubbio diversa dal solito, ci si addentra nel secondo girone scritto dal combo inglese. Il trittico composto da Consuming Lies, Culmination e la conclusiva Sick And Tired – questa rappresenta peraltro il modo migliore per affievolire la fiamma dell’opera – non si distacca da quanto già intrapreso con i brani precedenti, ma elabora maggiormente il concetto di quell’avanzata che sorprende per tutta una serie di motivi che possono essere identificati con la capacità di non annoiare neppure per un paio di minuti (e pensare che certi album fanno storcere il naso e staccare le cuffie anche se zeppi di canzoni da 3 minuti ciascuna), sorretti da una voce a tratti gutturale, a tratti intenta a sacrificare le proprie corde vocali, offrendo un sofferto lascito ai posteri. Un disco gigantesco, in tutti sensi, con il grande merito di attirare a sé anche chi non mastica certe sonorità e far scoprire come nel profondo di una cripta ci possa essere ancora una fievole luce che non attende altro che essere lentamente annichilita.