Recensione: A Real Dead One
E ci risiamo: recensire un live album degli Iron Maiden. Questa volta però la preoccupazione è minore perché il precedente “A Real Live One” tutto sommato era soddisfacente. Per quanto riguarda la mia ansia da prestazione invece… beh, quella resta, ma forse è comprensibile: siamo pur sempre di fronte ad una delle più iconiche band Heavy Metal di tutti i tempi (se non addirittura la più rappresentativa in assoluto), per di più alle prese con i propri classici, cioè i brani che li hanno resi ciò che sono oggi… e, per dirla tutta, quelli che hanno reso il nostro genere preferito come lo ascoltiamo oggi. Inutile dissertare sul contributo che gli Iron Maiden hanno dato al Metal in primo luogo perchè lo sappiamo tutti. In secondo luogo perché questo fa aumentare la mia angoscia all’idea di dover dare un voto al loro lavoro e, infine, perché se ci fosse ancora qualcuno sotto i vent’anni che non conosce questa band… beh farebbe meglio a fare subito ammenda ascoltando almeno dieci volte “A Real Live Dead One” il capitolo di successiva pubblicazione della discografia degli Iron che racchiuderà gli ultimi due lavori dal vivo in un unico pacchetto da antologia.
Torniamo al nostro album composto da brani prodotti dalla band nei lavori fino a “Powerslave” (1984) e quindi considerati “classici”: “A Real Dead One”. A conti fatti la track list è da paura e la band in grande spolvero, quindi il risultato è garantito ad iniziare da “The Number of the Beast”, opener veramente da paura che infatti fa urlare il pubblico e non di meno anche l’ascoltatore del CD. Il delirio continua con “The Trooper”, che in assoluto è uno dei pezzi che preferisco targati Maiden e che qui non si discosta molto dalla versione su disco, a parte per il coro del pubblico da far rizzare i capelli sulla testa. Lo shock emozionale continua soprattutto se siete dei veri fan della vergine di ferro perché con “Prowler”, qui arricchita con cambi di tempo e cori, i Nostri ci regalano una vera chicca per appassionati: questa è l’unica registrazione ufficiale con Bruce dietro al microfono. Lo stesso discorso vale anche per la successiva “Transylvania”, unica presa ufficiale dal vivo e brano strumentale di impareggiabile valore. Qui alla versione in studio vengono aggiunti virtuosismi al limite del funambolico sia nella sezione chitarre che in quella ritmica. Ma il piatto è ricco e i Maiden non si risparmiano, quindi ecco subito un’altra perla: “Remember Tomorrow”, per cui vale lo stesso discorso di “Prowler”, diventa essenziale nella collezione di ogni vero seguace per la presenza di Dickinson alla voce mentre per tutti gli altri l’ascolto è consigliato vista la straordinaria resa che questo pezzo mette in campo tra atmosfere vibranti e accelerazioni da infarto. Le rarità finiscono con “Where Eagles Dare” proposta per la prima volta su un CD live ufficiale, anche se eseguita in maniera abbastanza fedele all’originale. Caso completamente opposto per “Sanctuary”, che in questa versione è ampiamente arricchita da stop and go, cori e assoli, aggiungiamoci poi anche la presentazione della band, che fa sempre molta presa su pubblico, entrambe cose che apprezzo in un disco di questo tipo. Della successiva “Running Free” ho serie difficoltà a parlarvi perché mentre la ascolto non posso trattenermi dall’unirmi ai cori urlando nel mouse usato a mo’ di microfono e questo la dice lunga sul grado di coinvolgimento di questo brano! Sono ancora in estasi da metallo quando inizia la successiva “Run to the Hills”, per cui non mi scomodo nemmeno a darmi un contegno e salto direttamente in piedi sulla sedia!!! Gli ultimi due pezzi sono stati una sequenza micidiale e la successiva “2 Minutes to Midnight” non rallenta il cardiofrequenzimetro anche se, per quanto l’esecuzione sia a dir poco coinvolgente e il brano di assoluto spessore, nella mia personale classifica non compete con la successiva “Iron Maiden”, che non a caso, già dal titolo, sventola la vera bandiera degli Iron Maiden d’annata. Impossibile rimanere calmi e anche il pubblico si scatena insieme alla band che approfittando della struttura articolata del brano sprizza scintille da ogni nota. Degna chiusura di questa fatica discografica non poteva non essere “Hallowed Be Thy Name”, che nei suoi quasi otto minuti ci mostra gli Iron migliori di sempre, unendo la freschezza di una composizione anticonvenzionale (almeno all’epoca in cui fu realizzata), alla maestria esecutiva di chi ha solo da insegnare.
La riproposizione dei propri pezzi forti è sempre un rischio per ogni band, ma fortunatamente qui stiamo parlando della premiata ditta Iron Maiden che non ha ancora sbagliato un colpo, quindi, lode alla tecnica e alla produzione per aver dato alla luce un altro disco di assoluto rilievo che, pur senza farci gridare al miracolo, ci intrattiene molto più che piacevolmente con un’oretta di metallo di alta classe in cui, forse, solo alcuni suoni di batteria avrebbero potuto essere migliorati. Certo, qui più che in altri CD l’effetto “nostalgia” un po’ si sente e gioca a favore di un album che forse in assoluto non sarebbe epocale ma, diciamocelo, nessun vero metallaro potrebbe rimanere insensibile a questo CD o astenersi dall’headbanging nell’ascoltarlo … non è questo quello che conta?