Recensione: A Scarcity of Miracles

Di Damiano Fiamin - 21 Giugno 2011 - 0:00
A Scarcity of Miracles
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2011
Nazione:
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67

Non bisogna vergognarsi se, ogni volta che ci si prepara all’ascolto di un album al cui interno è presente Robert Fripp, si è scossi da un brivido freddo che corre lungo la schiena; razionalmente, siamo preparati al fatto che il disco non avrà molti punti di incontro con uno dei King Crimson ma, a livello inconscio, siamo sempre propensi ad augurarci una quanto più possibile somiglianza con questi ultimi. Oltre all’eclettico musicista inglese, A Scarcity of Miracles vede la partecipazione come protagonista di Mel Collins, sassofonista e flautista, già membro di King Crimson, Camel, Caravan e The Alan Parsons Project; la terza colonna portante del lavoro è invece il polistrumentista Jakko Jakszyk.
L’album è in grado di soddisfare le aspettative schizofreniche degli ascoltatori più esigenti: si tratta del settimo capitolo della serie dei ProjeKcts, progetto di sperimentazione sonora parallelo alla band principale inaugurato alla fine degli anni Novanta. Da qui sono stati presi in prestito due dei musicisti principali che hanno dato vita nei primi anni 2000 alla 21st Century Schizoid Band, famosa per aver portato in tour i primi quattro album dei King Crimson. Ci si chiede che cosa possa venire fuori da tutto questo: estremismi musicali dai mille volti quasi inascoltabili, l’ennesimo episodio della saga musicale “Robert Fripp & qualcun altro” oppure un sano disco di progressive rock vecchio stampo? Il titolo non è certo ben augurante ma la copertina, in pieno stile anni Settanta (disegnata da P.J. Crook, già autrice di alcune delle copertine del Re Cremisi) continua ad istillare un’insensata goccia di speranza.
   
È un’apertura sussurrata e intimista quella che viene fornita dalla title-track: A Scarcity Of Miracles distende lentamente un tappeto di note che pulsano pacate fino al crescendo strumentale, introdotto dall’assolo di sassofono di Collins che funge da ponte per l’inizio vero e proprio del pezzo, caratterizzato da una morbida alternanza musicale in cui i vari musicisti si avvicendano, quasi a volersi presentare all’ascoltatore in una sorta di manifesto programmatico di ciò che sarà il disco. La sezione ritmica fa il suo dovere senza esagerare; è evidente che il posto d’onore è riservato ai tre titolari del disco, che continuano la loro alchimia fino al gran finale, in cui si uniscono per un notevole incontro strumentale. L’apertura orientaleggiante di The Price We Pay, potrebbe indurre a pensare ad un cambiamento di rotta che, però, non avviene: il brano sembra una prosecuzione leggermente più briosa del precedente, contraddistinto da un passaggio di consegne dal sassofono alle tastiere.
Atmosfera rarefatta anche per Secrets: nella prima parte della traccia, tutto il gruppo si muove lentamente, in punta di piedi, avvolto da una cortina sonora che rende i musicisti eterei ed impalpabili, le note arrivano come suggestioni lontane, pare di ascoltare un richiamo mistico. È quasi un trauma l’avanzata della parte più energica del brano, sebbene essa non sia poi così pesante ma continui piuttosto a muoversi in un territorio più vicino al jazz che al rock.  L’onirica apertura di This House è un lento cullarsi tra nubi di vocalizzi sussurrati che si addentrano in modo inaspettato nell’anima di chi ascolta, insinuandosi nella sua mente fino a stordirla con avvolgenti assoli e palpitanti ritmiche di basso e batteria. L’improvviso cambio di registro di The Other Man coglie di sorpresa ancora una volta chi crede di aver individuato su quale sentiero abbiano deciso di muoversi Fripp e soci: il brano è intenso e carico di una maestosità quasi timorosa; si respira un’aria di inquietudine che continua per buona parte del pezzo, prima che le pulsioni dei musicisti trovino sfogo nell’unico vero momento di ritmo sostenuto dell’intero album.
The light of day è un’altra canzone mormorata, che dà l’immagine dei musicisti in penombra, avvolti da un velo di fumo che quasi li nasconde. Il sassofono di Collins è ancora una volta il protagonista del brano, i suoi fraseggi sottolineano i diversi passaggi di un brano che alterna momenti di completa distensione musicale, in cui si sfiora quasi la musica d’ambiente, ad altri più cupi ed inquietanti, in cui, finalmente, si avverte una lontana eco proveniente dai primi album dei King Crimson.  

Non possiamo certo gridare al miracolo dopo l’ascolto di questo album sebbene sia, come prevedibile, tecnicamente ineccepibile, A Scarcity of Miracles non riesce pienamente a far breccia nel cuore dell’ascoltatore. Le atmosfere eteree ed impalpabili che lo caratterizzano possono essere anche piacevoli ma è difficile non sentire l’amaro retrogusto della delusione all’interno della bocca, una delusione originata dalla consapevolezza di ciò che sarebbe potuto essere e che, probabilmente, non sarà mai più. Anche dal punto di vista della sperimentazione musicale, questo CD non ha molto da offrire; nessun brano verrà probabilmente ricordato per la sua originalità, né dal punto di vista musicale, né per quanto riguarda i testi. I brani, per quanto gradevoli, non si differenziano un granché tra di loro. Il Re Cremisi continua a dormire il suo lungo sonno; coloro che prenderanno in mano questo lavoro come palliativo in attesa della sua resurrezione, tengano conto che non si troveranno in mano altro che un distillato della sua torporosa attività onirica.

Damiano “kewlar” Fiamin

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Tracklist:

 A Scarcity Of Miracles (7:27)
The Price We Pay (4:49)
Secrets (7:48)
This House (8:37)
The Other Man (5:59)
The Light Of Day (9:02)

Formazione:

Robert Fripp – Chitarre, effetti sonori
Mel Collins – Sassofoni, flauti
Jakko Jakszyk – Chitarre, Voce, Guzheng, Tastiere
Tony Levin – Basso, Chapman Stick
Gavin Harrison – Batteria, Percussioni

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