Recensione: A Semblance Of Normality

Di Mauro Gelsomini - 1 Ottobre 2004 - 0:00
A Semblance Of Normality
Band: Skyclad
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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63

Finalmente è arrivato il primo vero disco del dopo-Walkyier, atteso da fan e critica con più di un dubbio riguardo il destino musicale di questa band. Se “No Daylights, Nor Heeltaps” aveva segnato un punto nella carriera degli Skyclad, essendo una rivisitazione acustica dei successi folk cantati dal nuovo singer Kevin Ridley (produttore della band fin dai tempi di Jonah’s Ark), questo “A Semblance Of Normality” spiazza le aspettative – qualora ce ne fossero – invertendo la rotta che sembrava rivolta verso suoni più sopiti e dalla marcata vena folk.

Sia chiaro, gli Skyclad non hanno mutato genere, dal momento che il loro folk-metal rimane sempre un marchio di fabbrica che personalizza e distingue ogni loro brano, ma stavolta la “solfa” cambia in favore del metal, più che del folk, a partire dall’accordatura delle chitarre, in re minore, adatta ad estirpare la gioiosità di talune composizioni piuttosto frivole che in altri frangenti avevano riportato alla mente saltarelli e canti da osteria. Anche i suoni si fanno pesanti, e il lato folk della band viene fuori spesso in coppia con soluzioni blues, mentre gli archi, qui suonati oltre che dalla violinista Georgina Biddle dalla Royal Philarmonic Orchestra, assumono non un ruolo di primo piano, ma di arrangiamento, che in cinque brani su tredici diviene determinante per l’atmosfera teatrale degli stessi, come richiesto dalle liriche, attualissime, sui problemai reali della vita (soprattutto politica) degli inglesi di oggi.

Il disco si apre con una intro di cornamuse, tanto ingannevoli per quel che sarà il proseguo quanto ben inserite nel contesto che descrive una società new age nella quale rimangono indelebili i segni di un tradizionalismo che vede negli strumenti celti la sua espressione più nota.
Il primo vero brano, “Do They Mean Us?” dimostra le mie parole sulle scelte stilistiche degli Skyclad: potenza, aggressività e tristezza, con la RPO a sottolineare i momenti topici di quella che si dimostra un’opener illuminante.
Segue “A Good Day To Bury Bad News”, sulle orme dell’hollywood metal in stile Savatage, ma con evidenti richiami nei riff al rock degli Ac/Dc, ancora una volta ben orditi con gli archi. La voce di Ridley è drammatica e clamorosamente vicina al parlato/cantato di Jon Oliva.
Come accennato, non mancano di certo gli spunti propriamente folk, e allora ecco “Another drinking song”, il titolo dice tutto, classico pezzo da osteria, ma decisamente raffinato, con un saltarello travolgente e delle liriche drammatiche a dispetto dalla musica. Si tratta forse della song più vicina alla precedente produzione degli Skyclad. Fantastico il crescendo sul coro centrale, che sfocia sul solo in tapping di Steve Ramsey, prima del finale pirotecnico.
Si torna ai riff cupi di “A Survival Campaign”, col melanconico Hammond a rendere quantomeno cantabili le strofe oscure sul neo militarismo. Ancora refrain memorabile e ancora assolo in tapping.
Sulla stessa falsariga è “The Song Of No-Involvement”, anche se non altrettanto vincente nel chorus, un po’ troppo cantilenoso, mentre si torna ai fasti del folk classico dei ‘Clad con “The Parliament Of Fools”, con le chitarre a graffiare la melodia portante capace di diventare dirompente sul solito chorus a tre voci. Fuori luogo il break blues prima del ritornello cantato a cappella.
Con “Ten Little Kingdoms” ho realizzato l’idea che il folk degli Skyclad non si addice al riffing di questo disco, dal momento che esasperando la pesantezza delle chitarre e, come in questo caso, aumentando la velocità, si costringono le lyrics in una sort di rap simil-SOAD, che sarà pure originale (ma che dico?), ma che uccide definitivamente la melodia. Il discorso dovrebbe ripetersi per “Like … A Ballad For The Disenchanted”, sebbene lenta e orientaleggiante, si discosta troppo dallo stile Skyclad, e risulta una nenia senz’anima e dal dubbio valore artisico. Finalmente si torna al folk medievaleggiante che ha fatto la fortuna della band di Newcastle: un’intro acustica introduce “Lightening The Load”, ballata folk sostenuta al ritmo di polka da mandolino, violino e cornamuse.
E’ un pesce fuor d’acqua “Not The Roman Wall Blues”, classica heavy metal song dal riffing derivativo (Metallica, Black Album) senz’arte né parte, fortunatamente seguita da “Hybrid Blues”, che dà gloria anche al singer Kevin Ridley, finora mai in grado di competere col suo predecessore in termini di interpretazione e emotività. La song è struggente, gli arrangiamenti delicati ne portano alle stelle la drammaticità, il riffing non è invasivo come altrove, e persino il finale a metà strada tra Savatage e Annihilator si incastra bene nel mood del pezzo.
Segue “The Dissolution Of Parliament”, con Arron Walton al bodhran (strumento a percussione tradizionale irlandese), un’outro d’ambiente che fa il paio con l’intro e chiude il cerchio.

Si tratta quindi di un ritorno, gradito sì, ma con diverse remore da sciogliere, in primis l’accostamento tra folk e riffing, quasi mai convincente, nonché il difficile compito di avvicinare, da parte di Ridley, quella capacità di infondere passione nei brani che grazie alla voce di Martin Walkyier aveva reso speciale il sound degli Skyclad.

Tracklist:

  1. Intro (Pipes Solo)
  2. Do They Mean Us ?
  3. A Good Day To Bury Bad News
  4. Another Drinking Song
  5. A Survival Campaign
  6. The Song Of No-Involvement
  7. The Parliament Of Fools
  8. Ten Little Kingdoms
  9. Like… A Ballad For The Disenchanted
  10. Lightening The Load
  11. NTRWB (Not The Roman Wall Blues)
  12. Hybrid Blues
  13. Outro (The Dissolution Of Parliament)

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