Recensione: A Soul In The Void
I cugini d’Oltralpe da qualche tempo sembrano timidamente volersi imporre in modo più significativo in ambito metal. Dopo i capitoli targati Adagio, Fairyland, Operadyse e Silent Opera, un altro giovane gruppo tenta, infatti, la via verso il mainstream della musica pesante.
Diciamolo subito, i Waverley Lies North, band attiva dal 2012, sono ambiziosi già a partire dal moniker, atipico nella sua citazione dell’opera scozzese di Sir Walter Scott. Scelta ancor più curiosa, se pensiamo che la band nasce dall’amicizia dei fratelli Mehay, attivi nella bella e selvaggia Piccardia (non nelle Highlands), influenzati dal metal sinfonico, così dal thrash e dall’heavy, oltre che dalla musica d’arte e dalle solite colonne sonore epiche tanto di moda nell’attuale società videodipendente. La line-up oggi prevede anche Bruno Poidevin alla chitarra solista, Eric Pariche (cantante d’opera in forza anche ai Superscream ed ex-Darjeeling) e Audrey Escots, soprano, ospite fissa. Unico cambio di formazione, Guillaume Hollier sostituisce al basso il collega Jérôme Pecquery.
Sul proprio sito web, i francesi per presentarsi parlano di accordature droppate, cori sontuosi e potenti, ma anche di ricerca melodica, atmosfere gotiche e del lato “virile” del proprio sound. A livello di testi, altresì, i nostri prediligono tematiche legate al soprannaturale, luoghi infestati, spiritismo e affini. È di casa, dunque, un’immancabile e gallica (si veda il nome della label) grandeur, unita a una vena esoterica: i Waverley Lies North per di più rincarano la dose definendosi non solo una band aristocratica e “glaciale”, ma anche «Au-delà de Plus qu’un groupe de metal, il s’agit aujourd’hui d’une entité musicale et visuelle – voire cinématographique – qui ne cesse de se développer» (Qualcosa di più rispetto a un mero gruppo metal, a oggi un’entità musicale e visuale – di fatto cinematografica – che non smette di evolversi).
Dobbiamo aspettarci, dunque, un confronto con del cosiddetto film score metal, ibridato con del buon gothic, sulla falsa riga di Epica e Nightwish? A dire il vero siamo lontani da un tale connubio tanto felice, quanto innovativo. Il platter è autoprodotto, il batterista cofondatore Ed Mehay si è occupato delle orchestrazioni, mentre il fratello Julien è il principale autore delle melodie. Una mancanza d’originalità è patente già a partire dall’idea di ripubblicare il debut album del 2013, A Soul in the Void, con lo stesso titolo, un nuovo artwork (bellissimo, va detto) e una scaletta solo minimamente rivisitata. Il disco, a prescindere da tale scelta commerciale, non fa gridare al miracolo, al più presenta alcuni momenti più incisivi di altri tra molte ombre.
Ma veniamo alla musica vera e propria.
“The Curse (Lux in Tenebris)” è un opener di sei minuti, con evidenti rimandi ai Symphony X per quanto riguarda il trattamento delle tastiere. Difficile, invece, giudicare in modo totalmente positivo gli acuti di Audrey Escots, a tratti fuori luogo. La titletrack inizia e finisce su toni sospesi, ripresentando un riffing gagliardo e oscuro come quello di Michael Romeo. La melodia non manca nel refrain e i “rientri” in glissato delle chitarre hanno li giusto groove.
Tema catchy in apertura di “Cherish No Hope”, con un synth ficcante nella sua sprezzatura per niente metal. I testi della prima strofa sono la summa della megalomania dei Waverley Lies North: «Violin strings and a fugue / the fading of the instrument / and the silence that follows / on the verge of nothingness / the rhyme of an eulogy / are able to crush a soul / hear the choirs as they sing.» Ed Mehay si diverte al doppio pedale, mentre a metà brano trova spazio un breve e ispirato assolo di chitarra, opera di Poidevin. Pessimo, invece, la rivisitazione del Confutatis mozartiano, meglio andare a rivedersi Amadeus di MIloš Forman, dove è ben presentata questa parte del Requiem completato da Franz Süssmayr.
“Labyrinth” non spicca più di tanto in scaletta, se non per alcuni vocalizzi araboidi e un solo di synth “spaziale” al quinto minuto. “Aria Nocturna”, traccia più lunga del lotto, denota più di un difetto, con echi lapalissiani di Rhapsody Of Fire e degli Epica lirici. “Gilded Faith” è un altro brano quadrato, ma monotematico, con i soliti acuti improvvisi di Audrey Escots e delle sequenze gothi a livello di cori. Il discorso non cambia con l’ultimo pezzo “Follow the River”, più film score metal-oriented e oscuro.
Il breve outro finale, da ultimo, sembra rubato ancora alla band di Staropoli (o agli Haggard), con eterei vocalizzi ieratico-tenorili. Da segnalare un easter egg nei secondi conclusivi: un guizzo di violino inquietante dà avvio a una concisa coda strumentale a effetto.
Questo è quanto. La proposta dei Waverley Lies North ha certo ampi margini di miglioramento, tuttavia resta debolmente impressa nella memoria dell’ascoltatore, se non per le tinte esoteriche dell’artwork e del sound messi in campo, indubbiamente per la voce di Eric Pariche, a tratti carismatica, ma monocorde e che ricorda quella di Michael Andersson in forza ai Cloudscape. Musica passabile, niente di sorprendente: la Francia resta nel limbo del metal che conta.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)