Recensione: A Spark in the Aether, the music that died alone – volume II
Quel sogno non vuole essere cancellato perché composto della materia primordiale che anima l’esistenza stessa nella sua infinita varietà. I sogni, quelli che strisciano insinuandosi nei pensieri di tutti i giorni, se respinti, cercano spazio, vogliono prevalere, ma come fare? Come placare quella sete di vita, di musica, di voler eccellere a prescindere da ogni sconfitta? Forse cercando una singolarità, una non continuità nell’infinitesimale, uno squarcio nell’etere che è in realtà diviene fuga musicale. Duello all’ultima nota, sfida con sé stessi.
I The Tangent non esistono nel 1999. Però proprio in quell’anno il britannico Andy Tillison trova la sua musa ispiratrice negli svedesi Flower Kings ed in loro intravede quella varietà musicale (rock, jazz e progressive) che vuole ricomporre in una nuova veste. Solo nel 2003 uscirà il primo album dei Tangent intitolato “The Music that Died Alone” da subito riconosciuto per l’indiscusso valore musicale ed etichettato come capolavoro del genere progressive rock. La formazione di allora subirà variazioni nel tempo tanto da dover considerare l’unica vera costante del gruppo proprio il virtuoso cantante e tastierista Tillison.
Le pagine del calendario si susseguono inesorabili scandite dall’uscita di un disco della band inglese quasi ogni due anni, nel 2013 rilasciano il settimo album “Sacre Du Traveil” lavoro complesso in bilico tra un approccio cinematografico e quello di una partitura classica con modello The Rite of Spring di Stravinskij. Come nel precedente “COMM” vi sono luci e ombre, forse dopo aver dato alla luce una serie di album di altissimo livello, la voglia di muoversi oltre i propri confini musicali ha fatto si che venissero meno determinati equilibri compositivi.
Nel 2015 il viaggio musicale dei The Tangent nelle antiche lande del progressive si muove in circolo verso l’esordio, infatti alcuni indizi ci porterebbero a pensare che si tratti proprio di un seguito del loro primo album ed il titolo “A Spark in the Aether, the music that died alone – Volume II” contiene una chiara citazione del passato, così come la copertina ne imita sia colori che lo stile. Altro punto di contatto con le origni è la presenza in formazione di due componenti già presenti nell’esordio “The Music that died Alone”, infatti al basso troviamo Jonas Reingold mentre ai fiati Theo Travis. Completano la formazione Luke Machin alla chitarra e Morgan Agren alla batteria. Siamo di fronte nuovamente ad una formazione di musicisti di elite. Ora rimane solo da scoprire in quale direzione si sono mossi i The Tangent, il loro progressive rock tornerà a incantarci come agli esordi e riproponendo quella formula di successo?
Non proprio, andiamo a vederci dentro. La prima traccia “A Spark in the Aether” corre in up-tempo disegnato da note di tastiera e suoni sintetizzati, apparentemente gioiosa nell’incedere per condurci verso la melodia centrale del ritornello che Tillison stavolta tinge di colori fin da subito leggibili, così ogni nota si carica di energia e non è un caso se il brano diventa video live nonchè primo singolo. I The tangent pongono l’accento sul lato rock del loro essere puramente progressive e le parole sono manifesto del proprio sentirsi ribelli verso quella modernità alienante in quanto vile clonazione dell’arte; sembrano voler rispondere alla provocazione di Andy Warhol per cui “Un buon affare è la migliore opera d’arte…” (cit. tratta dal libro “La Filosofia di Warhol da A a B e viceversa”) e quindi sfidare quell’alone di morte e gelo che pervade l’opera dell’artista americano. Il cantato di Tillison è grido di liberazione, forse gioiosa, sicuramente orgogliosa di esserci e di non arrendersi, ma di sopravvivere facendo grande musica.
La prima traccia è un’eccezione? Oppure qualcosa è realmente mutato? Il brano successivo intitolato “Codpieces and Capes” si apre con una sezione ritmica pilotata dal basso indiavolato di Reingold, deraglia in tastiere e diventa possente nelle vocalità piene di punti esclamativi di Tillison con i quali disegna cori di melodie a dialogare con la chitarra di Machin. Dopo questa prima sezione succede di tutto, passaggi jazz esaltati dal sax di Travis mutano in riff rock per poi aprirsi di nuovo a intricate trame di tastiere, fiati e bassi dialogano in armonie sempre ben costruite. La voce di Tillison a volte racconta, spesso canta, ma è sempre comunque a suo agio pronta a esplodere in melodie che riprendono il tema portante del brano.
Non sono i The Tangent degli esordi, di quel “The Music that died Alone” che si librava in musica progressive nostalgica le cui melodie erano certamente fatte di colori più tenui rispetto all’energetico seguito. A detta di Tillison l’inserimento di Morgan Agren (ha suonato con Frank Zappa tra gli altri) alla batteria avrebbe portato nuova energia ed eccentricità alla musica dei Tangent, uno dei fattori che hanno originato questo ennesimo mutamento. Sarà vero? Se ascoltiamo la successiva “Clearing the Attic” notiamo che la batteria è chiamata al complicato ruolo di tenere assieme variazioni jazz, rock e progressive ove il mood è invece quieto, quasi rilassato. Agren inventa e stupisce. Vi sono passaggi jazz scherzosi che rimandano a Chick Corea, ma il tutto è riletto alla The Tangent. Così la struttura del brano si deframmenta in infinite bellissime variazioni sul tema principale che viene rincorso, sfiorato, quindi storpiato per poi aprirsi nella voce di Tillson a esaltare in maniera essenziale e epica la melodia principale del brano.
J.L.Borges teorizza , nel saggio intitolato “Inquisizioni”, che la letteratura è anche dialogo più o meno diretto tra opere di scrittori anche distanti nel tempo. Ai nostri giorni i The Tangent riprendono “Careful with that Axe, Eugene” ( contenuta nell’album “Ummagumma” del 1969) dei Pink Floyd che diventa “AfterEugene”, dopo Eugene, perché il gli anni sono trascorsi inesorabili, ma il dialogo con il passato è incensante per chiunque voglia confrontarsi con il genere progressive e la musica in generale. I The Tangent contraggono i tempi rispetto all’originale. L’avvio è dialogo tra flauto e chitarra acustica, poi s’insinua il basso pulsante, quindi i suoni deragliano in un sax inquieto. Dopo un attesa carica di nubi minacciose arriva una tempesta che si materializza in scosse elettriche e oscurità.
In “The Celluloid Road” il viaggio musicale prosegue on the road attraverso l’America del cinema hollywoodiano ed è un sugguersi di invenzioni fusion. Siamo di nuovo fuori dagli schemi, lontani e vicini al passato, muovendosi quindi in paradossi temporali la musica dei Tangent combina con coraggio generi lontani tra loro, rimanendo in bilico tra immediatezza delle melodie e complessità delle parti strumentali.
La sesta traccia intitolata “A Spark in the Aether (Part 2)” riprende il tema del brano di apertura e viene riscritto in una versione che è sintesi di quanto creato sin qui, cioè in un susseguirsi quindi di variazioni jazz, rock e funky. Il brano è uno strumentale che lascia spazio alla voce di Tillison solo verso la fine del brano in un crescendo di grande energia.
L’ultima traccia intitolata “San Francisco Radio Edit” completa il loro eclettico e bellissimo puzzle. Il gruppo inglese riprende l’approccio rock in up tempo che ora però rimanda ai temi musicali dei film polizieschi anni ‘70 e li rivisita incrociandoli con il jazz e il funky. La batteria di Agren è mirabile esempio di inventiva ritmica e permette ai fiati e alla chitarra di mettersi in evidenza in virtuosismi mai fine a sé stessi, ma che in realtà riescono ad esaltare le melodie disegnate da Tillison alla voce.
“A Spark in the Aether, the music that died alone – volume II” è un viaggio ingannevole e beffardo verso le origini della band stessa, infatti degli esordi rimane quell’attitudine propria dei grandi musicisti a reinventarsi e a rimettersi in gioco (oltre che il loro inconfondibile stile). I The Tangent sorprendono l’ascoltatore perché da un lato vi sono melodie rock immediate e originali, dall’altro le strutture delle composizioni pur rimandando all’eclettismo jazz combinano generi diversi in un susseguirsi che non è mai caos incompresibile, ma un bellissimo esempio di ciò che il progressive rock dovrebbe essere. Equilibrio precario tra canoni e avaguardia per sperimentare nuove forme di linguaggio musicale.