Recensione: A Strings’ Dramedy

Di Stefano Usardi - 1 Febbraio 2017 - 10:48
A Strings’ Dramedy
Band: Macaria
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Esordio rombante per i Macaria, band pugliese nata nel 2009 col nome di Folkentroll: il folk di matrice Finntroll degli esordi si carica, dopo il cambio di nome avvenuto 2013, di nuovi elementi attinti dal death metal e dalla musica sinfonica che, uniti ad una certa teatralità di fondo del gruppo, donano a questo “A Strings’ Dramedy” carattere e profondità notevoli, anche grazie a una produzione rotonda che, nonostante qualche scivolone nei confronti della sezione ritmica, esalta quasi tutti gli strumenti coinvolti. L’idea alla base dell’album si concentra sulle esperienze di una marionetta divenuta senziente e lasciata libera nel mondo: il suo approccio ingenuo e senza filtri alle brutture e alle contraddizioni dell’ambiente in cui si muove serve al gruppo per veicolare il proprio messaggio di denuncia e di critica sociale. Sipario!

Non appena pigiato play si viene raggiunti da una melodia introduttiva dal vago sapore di luna-park che si carica di inquietudine fino a sfociare nell’aggressiva “The Puppets Theater”, prima vera traccia dell’album: le melodie si mantengono ariose e inquietanti, grazie al lavoro delle tastiere e ai ritmi perlopiù danzerecci ancora debitori della matrice Finntroll a cui si accennava in apertura, su cui si innesta il cantato abrasivo di Lorenzo. Il breve assolo apre la strada a un intermezzo trionfale dominato dai cori (fondamentali nell’economia di tutto l’album), che a sua volta cede il passo a una breve sfuriata poco prima del finale, in cui tutti gli elementi anzidetti si fondono e l’inquietudine torna a screziare le possenti melodie create dal gruppo. Anche la traccia successiva, “Outside”, si mantiene sulla stessa lunghezza d’onda, sebbene risulti maggiormente indirizzata verso una certa solennità marziale che si fa via via più preponderante man mano che la canzone prosegue. Gli accenni folk tornano solo per un brevissimo accenno nella seconda metà, prima di essere fagocitati di nuovo dalla magniloquenza tastieristica e dal finale tutto cori, ottimamente sorretto dalla corposità della coppia di chitarre e dall’ottima prova della sezione ritmica. “Shaped Water” si concentra maggiormente sulle suddette chitarre relegando le tastiere al semplice accompagnamento per larghi tratti della traccia, rendendola così assai robusta ma comunque molto variegata (si veda ad esempio l’intermezzo quasi swing): l’ingresso in scena del violino introduce il breve assolo e quindi il finale, in cui il tasso di pomposità della canzone, che nella prima parte si era retto solo sulle brevi comparsate dei cori, torna a svettare e ci traghetta all’arpeggio ben più disteso e folkloristico di “The Hidden Filth”. L’incanto mediterraneo dura meno di un minuto e mezzo, prima che le tastiere e la voce tornino a pretendere la centralità della scena e le sfuriate di batteria inizino a piovere. La melodia iniziale rimane presente nella composizione, affacciandosi in alcune occasioni seppur in una forma diversa, mentre la teatralità garantita dalle tastiere si intreccia a brevi accelerazioni dal sapore quasi black. “Tar Nectar”, per parte sua, dopo un inizio più operistico si concede uno sviluppo frastagliato, mescolando melodie circensi, ritmiche scanzonate e danzerecce e schegge di rabbia vocale, condendo il tutto con un assolo che profuma di musica classica, mentre è con la successiva “Carnival of Pigs” che i nostri calano l’asso. La canzone si snoda su ritmi leggermente meno furiosi del solito richiamando ancora, nell’uso delle melodie, i Finntroll più scanzonati ed accattivanti, ma è solo con l’arrivo dell’azzeccatissimo ritornello tutto cori ed epicità che il brano trova il suo compimento, bilanciando solennità e potenza con un gusto che mi ha ricordato, per certi versi, gli ultimi Blind Guardian. Questo sentore continua ad aleggiare anche nella successiva “Midday Strangers”, semplice intermezzo strumentale che, dietro il suo incedere da motivetto di luna-park, rilascia un insistente profumo degli ultimi lavori dei bardi di Krefeld prima di cedere il posto alla title-track, che energizza lo stesso motivetto a dismisura grazie a una batteria furibonda, chitarre spesse ed improvvise accelerazioni. Il brano gioca con cambi di ritmo e di atmosfera tanto rapidi quanto spiazzanti, sfruttando il rallentamento centrale come fulcro della composizione, specchio ideale per contrapporre una prima metà frenetica ad una seconda parte più minacciosa e incombente in vista della sfuriata finale.
Chiude l’album “The Knot of Wills”, introdotta da un arpeggio disteso e malinconico che cede ben presto il passo a una ritmica corposa e spezzata, impreziosita da melodie sontuose e solenni che tradiscono di nuovo un certo amore per la musica classica e contribuiscono a concludere questo quasi concept in modo giustamente maestoso.

Ben fatto, ragazzi.

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