Recensione: A Umbra Omega
“Qui si convien lasciare ogni sospetto;
Ogne viltà convien che qui sia morta. “ (Inferno, Canto III)
Era nell’aria. Lo si poteva già intuire al momento dell’annuncio del ritorno di Aldrahn nella band; quel microfono deve essere suo, oseremmo dire. I Dodheimsgard non davano discograficamente cenni di vita dal lontano Supervillain Outcast del 2007, che era si ottimo ma non ai livelli del precedente, immenso capolavoro chiamato 666 International. Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti, A Umbra Omega si presenta pronto a fugare ogni dubbio sullo stato della band, ogni dubbio sulla sua effettiva esistenza e ci riconsegna la creatura di Vicotnik a livelli impensabili anche per il più roseo ottimista.
Quest’uomo ha probabilmente dato all’arte molto, moltissimo di più rispetto a ciò che ha effettivamente raccolto nel tempo; è un uomo che ha reso e sta rendendo l’avantgarde un genere pericoloso, influente, geniale e parossistico. Dai Ved Buens Ende ai Code, dai Manes ai Dodheimsgard, parliamo di pagine importantissime di una nicchia della nicchia che resistono e resisteranno al tempo; capisaldi oscuri, conosciuti purtroppo o per fortuna da pochi appassionati che ne trasmettono la flebile memoria.
Ebbene, prendiamo oggi una di queste gemme e proseguiamo quel discorso, perché A Umbra Omega non riprende né prova a riprendere ciò che fu 666 International; semplicemente sceglie la strada più difficile e ne evolve il concetto.
“Non limitarti a spiccar le foglioline
Né darti pensiero soltanto dei rami.” (E. Yoshikawa, Musashi)
Come comprendere l’incomprensibile? A Umbra Omega è difficile da interpretare, difficilissimo anche dopo moltissimi ascolti; un track by track risulterebbe deprimente e ne farebbe ben poca giustizia. Pensiamo come lui, diagonalmente, tiriamo fuori L’Arcobaleno Della Gravità, Infinite Jest, Canti Del Caos, chiamiamo in causa opere grandi, immense, che si leggono dieci volte senza capire niente perché poco propense a inserirsi nel modo di pensare odierno. Tutto e subito, eiaculazioni precoci, spasmi di apparente appagamento e facili entusiasmi, un clamoroso accontentarsi del mediocre dove la personalità fa davvero paura e diventa un bersaglio stagnante contro cui le freccette del pensiero rimbalzano finendo nel vacuo. Per capire A Umbra Omega bisogna invertire la tendenza, aprire la mente, partire da Queneau per finire ad Aphelion Void:
“There is a place called reality
Hidden to all men
You can reach it through insanity
But never to return again…”
I Dodheimsgard suonano futurista e crash roarrrrrr sgrang, oppure possono sembrare un flusso di coscienza senza un primitivo senso apparente in cui si susseguono più o meno venticinque generi ogni cinque minuti la cosa potrebbe destabilizzare e invocare il tasto stop in favore di qualcosa di più immediato e fugace oppure potrebbe fare l’effetto di un ippopotamo seduto nella ciotolina di un cane di nome Edoardo che qui non è rilevante ma potrebbe comunque avere un senso; possiamo vedere nella proposta del teatro, una scrittura in dialoghi in cui:
Scena prima Black Metal sempre presente e ben radicato, gli altri attori vanno e vengono
Black Metal (Riff taglienti, abrasivi, tremolo picking dissonanti e arpeggi glaciali)
Jazz (Presente ma non troppo, il sax c’è, non può mancare)
Black Metal (Blast beat potenti, spietati, si sente anche il basso)
Cabaret, deliranti (Presenti, con tanto di coretti scanzonati)
passaggi acustici
Ambient (Ovviamente presente e ben dosato)
Black Metal (Produzione scarna ma cristallina, perfetta per il disco)
E via dicendo. Si assiste allibiti davanti al palcoscenico e viene voglia di buttare il cannocchiale in testa a chi sta seduto in platea rigorosamente dopo aver dato fuoco al libretto scritto da non importa chi. A Umbra Omega catapulta nell’occhio del ciclone, quel posto in cui da fermi si osservano roteare le epistole tra voi e il creatore, tra il Visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil; è un esercizio di stile il cui filo logico viene svelato nel momento in cui si contraria il mondo e ci si ferma a pensare e a percepire.
A Umbra Omega è L’Anima Del Male, un romanzo in cui Joshua Brolin il serial killer lo prende, ma solo dopo che la sua Juliette gli è stata sgozzata davanti; si colloca qui, precisamente qui, tra sollievo e tragedia, il trionfo dell’antieroe in una storia dove il lieto fine non è mai scontato o lo si paga a caro prezzo. Quattro triangoli colorati in mezzo al grigio, basta, non serve altro; un digipack scarno con un booklet che contiene a malapena i testi. Qui non servono aneddoti, trailer, video, anteprime, ghirigori e siringhe dentro un pollo che altrimenti marcirebbe prima di diventare arrosto fumando però già senza essere acceso. La magia dei giorni nostri. Il mondo non ha bisogno assolutamente dei Dodheimsgard, non può permettersi di dirlo perché significherebbe ammettere che il conformismo, l’omologazione, gli stilemi precaricati e imposti, i dogmi e tutto ciò che impera nel contemporaneo sono concetti falliti in partenza.
E’ un disco ricco, decadente, devastante, anarchico, estremo come pochi; un’entità complessa e un’opera d’arte che per molte persone potrebbe tranquillamente risultare di fatto la chiusura dell’anno musicale 2015 e non solo. Qui ci sono idee e stralci per decine e centinaia di dischi, c’è musica fatta per non piacere perché c’è eccellenza, pura e incontaminata.
Qualunque persona ascolti metal in maniera poliedrica, senza paraocchi né restrizioni; qualunque persona sia ancora in grado di vivere senza idoli e senza aggregarsi a una massa per sentirsi se stessa, qualunque persona abbia fatto della decadenza e dello sgretolarsi dell’anima un punto di forza non può prescindere dai Dodheimsgard. Tutti gli altri? Beh, benvenuti all’inferno.
“Weapons of mass-hypnosis
Alert resistant failure
Proudly gifted with skills
Of indoctrination
Close your eyes and follow me
And will show you
Where to search and how to die.”