Recensione: A Voice Within

Di Stefano Burini - 18 Marzo 2014 - 0:01
A Voice Within
Band: Intervals
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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75

È da parecchio che si sente riecheggiare in giro per la rete il nome degli Intervals; eppure, a dispetto dei passaparola e dell’ottima fama, il debutto sulla lunga distanza (peraltro autoprodotto) di questa giovane band canadese risale proprio a questo inizio di duemilaquattoridici. 

Rispetto ai tempi dell’EP “The Space Between”, uscito nel 2011, la prima grossa differenza che balza immediatamente all’orecchio si deve alla presenza di Mike Semesky (ex The Haarp Machine) alla voce. Con il suo ingresso in formazione gli Intervals si trasformano da ensemble puramente strumentale in vera e propria metal band; tuttavia il sound complessivo del quartetto non subisce stravolgimenti, rimanendo all’interno dell’ampio spettro del djent, seppur nella zona piu melodica e (rock)-progressiva. Non v’è dunque traccia di growl/scream vocals o di sfuriate ai limiti del math/metalcore tra i solchi di “A Voice Within”, quanto piuttosto di quel metallo freddo, spaziale e futurista che di certo può annoverare il grandissimo Devin Townsend tra i propri inventori e maggiori esponenti.

La tracklist si compone di nove brani, tutti fortemente improntati alla melodia quanto mai mai banali, nei quali il tessuto sonoro, cucito punto per punto da Aaron Marshall e Lukas Guyader alle chitarre e da Anup Sastry alla batteria, trova un adeguato coronamento nelle linee vocali di Semesky, più vicino per timbrica e impostazione ai classici Phil Collins e Peter Gabriel che non a Spencer Sotelo, Cedric Bixler Zavala e Sean McWeeney. Si passa quindi senza problemi di sorta dal melodic djent di “Ephemeral” al prog metal vagamente Dream Theater-iano di “Automation” fino a strizzare l’occhio all’alternative rock nell’ottima “Atlas Hour”, mentre una menzione a parte se la merita la spettacolare “Moment Marauder”, non a caso scelta come singolo e veramente brillantissima nel mescolare con grande perizia prog, djent e mirabili innesti di pianoforte e ritmiche jazzate: una perla di livello assoluto.

Sarebbe d’altro canto un autentico crimine non spendere qualche parola per la Periphery-ca “The Self Surronded”, per la soave “Breathe”, forse la miglior colonna possibile per una gelida alba invernale o, di nuovo, per la drammatica “The Siren Sound”, con il suo rifferama teso, le vocals enfatiche e il bell’assolo di chitarra nel quale confluiscono rock, metal, funk e jazz. Tutti brani che vanno a completare, con le altrettanto valide “The Escape” e “A Voice Within” un album piacevole, interessante e sostanzialmente privo di cali di tono.

Non hanno (ancora) la forza esplosiva dei Periphery o l’irriverenza dei The Safety Fire ma meritano fiducia, questi Intervals: sulla carta l’ennesimo gruppo dedito a sonorità in voga, nella realtà una band con un suono ben definito e tante idee potenzialmente vincenti per quanto non ancora sviluppate al cento per cento. Assolutamente da tenere d’occhio.

Stefano Burini

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