Recensione: A Wake In Sacred Waves

Di Tiziano Marasco - 2 Gennaio 2018 - 0:00
A Wake In Sacred Waves
Band: Dreadnought
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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79

Ultimo colpo di coda per il 2017 appena conclusosi, e che colpo di coda il terzo disco dei Dreadnought. Va detto, la recensione si è rivelata problematica sin dal tirare fuori informazioni sulla band in oggetto essendo il monicker soggetto (eh dai, concedetemela!) a un’insospettata quantità di omonimi. Nella fattispecie, l’importante è aver scoperto che questi Dreadnought vengono dal Colorado (tant’è che i domini di tutti i loro siti recano la dicitura dreadnoughtdenver) e con “A Wake In Sacred Waves” sono giunti al terzo full-length.

Ma fosse solo quello. I nostri dispongono di un notevole talento strumentistico – praticamente tutti suonano un paio strumenti che tra loro ci azzeccano poco quando va bene, hanno due female singers e una è pure in grado di mischiare clean e growl come se nulla fosse. Insomma, sono in 4 ma per fare un live dovrebbero essere almeno sette.

Il genere? Uno sguardo alle varie paia di strumenti suonate, nonché il fatto che “A Wake In Sacred Waves” faccia i 51 minuti con sole 4 tracce un paio di indizi dovrebbe darvelo. E in effetti, trattasi di progressive, molto post e con alcune sfuriate violente, ma indiscutibilmente progressive.

4 tracce si è detto, tutte sopra i 10 minuti, ma con una opener lunga quasi il doppio delle altre (17 vs 11 minuti). Innumerevoli ascolti, strutture complesse, atmosfere sognanti, inserti folk e sparute sfuriate di violenza.  

Al netto di ciò “A Wake In Sacred Waves” è un disco spaccato a metà. La prima metà, ovvero i 17 minuti della opener “Vacant Sea” e i primi 5 minuti di “Within chanting Waters”, mettono in mostra una band con grandissime potenzialità, eppure acerba. Questa prima metà offre un’incredibile girandola di atmosfere, ritmi e suoni, offre molti spunti interessanti e momenti molto suggestivi. Di fatto però la molta carne al fuoco è mal gestita, i Dreadnought non si dimostrano molto abili nel gestire i cambi di ritmo. Alti e bassi che portano a un risultato ben noto nel prog: i 17 minuti della opener paiono essere 45.

L’altra metà del disco (cioè due tracce e mezzo) ci offrono una band in tutto simile a livello sonoro, ma molto più sobria – senza voglia di strafare – a livello compositivo. Il che si traduce in un’accentuazione della componente prog, che crea pezzi lunghi e ipnotici, dominati da un tema portante. Ne scaturiscono atmosfere molto suggestive che richiamano alla lontana certi momenti dei Gathering di “quando c’era lei” (tipo “How to measure a planet”) e altri momenti degli Opeth di “quando lui era a posto con la testa” (tipo parti strumentali di “Blackwater park”).

Davvero impressionante.

Detto ciò, la valutazione finale di “A Wake In Sacred Waves” non può che essere una media ponderata delle due parti. La prima, piuttosto valida ma molto pesante e acerba, potrebbe arrivare a un 70, la seconda non ha problemi a passare l’80. La ponderazione sta nel dare un paio di punti in più, sperando che i Dreadnought si dedichino, in futuro, ad affinare quanto messo in mostra nella seconda metà di disco.  

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