Recensione: Aava Tuulen Maa
Il sole che dopo il lungo inverno attraversa nubi di pietra. La taiga sonnacchiosa che si scrolla la neve di dosso. Il disgelo. L’erba che rispunta e si copre di rugiada. Il ghiaccio dell’Irtyš che si scioglie. Indipendentemente da ciò che sia racchiuso nei testi in finlandese, questo è il messaggio che mi ha sempre comunicato Aava Tuulen Maa, terza prova dei Kauan, uscita nel 2009. I Kauan, ormai è arcinoto, pur affidandosi al finnico come veicolo dei loro messaggi, sono di Čeljabinsk. Una città della steppa siberiana, circondata da laghi, non molto distante (secondo il metro russo), dagli Urali e dal già citato maggiore affluente dell’Ob’, in quella regione che è confine naturale tra Europa ed Asia. Ed è a quelle zone che il disco riporta. Terre spoglie miste a foreste sterminate, morte per gran parte dell’anno e piene di vite nella breve estate.
Aava è un disco denso di sensazioni. Un disco liquido, etereo, limpido. Non vi troverete molto di metal – ed essendo anche il primo disco che ascoltai dei Kauan, per lungo tempo rimasi a chiedermi come mai la creatura di Anton Belov fosse etichettata “black”. Solo due anni dopo, con l’arrivo di Kuu (che seguiva Aava) e l’acquisto del debut Lumikuuro, iniziai a capirne di più. Aava tulen maa, si diceva, è un disco estremamente etereo, in tutto e per tutto si tratta di un disco di post rock con inserti di chitarre acustiche folk e tastiere tipiche del progressive, di quelle che irrorano la musica di vampate calde ed avvolgenti. Un disco sognante. Basta ascoltare i dieci fantastici minuti di Valveuni, seconda traccia dell’album per capirlo, e così vale per la conclusiva Neulana hetkessä.
È estremamente difficile descrivere questo album, estremamente semplice, lento e languido, quasi spoglio in certi momenti, eppure al tempo stesso denso di sensazioni. Un disco che mischia gelo e calore con una grazia incredibile, un disco che apre l’anima pur essendo per gran parte strumentale – e proprio per questo, difficile da descrivere. Prendiamo la opener Ommeltu Polku, effettivamente 5 minuti strumentali, con chitarre semplici, tappeto di tastiere e drum machine, gelido e immenso come i venti siberiani, su quali però cavalca languido e avvolgente il violino di Ljubov Mušnikova. Qualcosa di magnifico, cinque perle, su cui svetta, probabilmente, la già citata Valveuni.
Scoprire questo disco, in un momento in cui i Kauan erano una band conosciuta da poche centinaia di persone in Europa (e probabilmente ora non siamo molti di più), fu un colpo al cuore. Una band black metal che non fa black metal. Una band che canta in finlandese ma viene dalla Russia, anzi, dalla Russia asiatica, fosse stata della Carelia sarebbe stato comprensibile. Va detto, a tal proposito, che il finlandese è una lingua Uralica, che molto probabilmente dagli Urali arriva e che ancora oggi, attorno a quella catena, si parlano ancora lingue di quel ceppo agglutinante.
Fossero stati statunitensi come i Gallowbraid o i Caladan Brood, i Kauan avrebbero 5 volte i fan che hanno ora. Pertanto non possono che essere sostenuti e diffusi. Aava Tuulen Maa è, assieme al già citato Kuu, il meno allineato tra i dischi del gruppo nato a Čeljabinsk, dati gli sviluppi di formazione è impossibile etichettarli semplicemente come „russi“. Eppure grazie alla sua magia ha sventrato molte anime e aperto molti cuori. È divenuto in pochi anni un autentico disco di culto. Un disco che dura nel tempo, un disco a cui rimettere mano, nei momenti giusti, più volte all’anno.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco