Recensione: ABIII
La storia degli Alter Bridge, complice il grande successo ottenuto in tutto il mondo (e in particolare in Italia), ormai la conosciamo tutti: dalla nascita dalle ceneri dei Creed fino all’affermazione, sempre più veemente e trascinante, guadagnata sul campo a suon di concerti esplosivi e di album via via sempre più apprezzati e venduti. Il terzo nato, “ABIII”, spolpando il concetto fino all’osso è semplicemente uno dei migliori dischi di rock melodico del nuovo millennio, nonché uno dei pochi “classici moderni” in grado di imporre uno stile e degli standard (sonori e qualitativi) riproposti ed imitati fino allo sfinimento da miriadi di giovani epigoni (e non solo).
Già, perché nonostante la diatriba “di genere” non sia, per molti, ancora del tutto risolta – al netto di chitarre dal suono spesso e ribassato e di una quantità esorbitante di watt dispensati – è davvero difficile etichettare gli Alter Bridge come semplici alternative/post grunge rocker. Indubbiamente le atmosfere sono spesso plumbee e i testi introspettivi (non è certo party rock quello che troverete tra i solchi di uno qualsiasi dei loro lavori…), eppure il grande spazio lasciato alle sezioni strumentali, la grandeur melodica e la carica dannatamente heavy, nel senso più ampio possibile del termine, di tutte le canzoni hanno fatto (e, siamo pronti a scommettere, faranno) balzare il cuore in gola a più d’un appassionato del cosiddetto “melodic hard rock”. Inoltre, in un epoca in cui ogni giorno si sente dire che tutto o quasi è già stato scritto, se da un lato i quattro di Orlando non possono essere di certo inseriti nella categoria degli innovatori assoluti va, d’altro canto, riconosciuto loro il grande merito di aver costruito un trademark immediatamente riconoscibile (e, come tale, copiatissimo) andando a miscelare stilemi provenienti da mondi un tempo in aperta competizione.
In effetti, il vero e proprio asso nella manica degli Alter Bridge è stato, fin dall’inizio, il grande talento nel coniugare la potenza delle trame strumentali partorite dalla chitarra di Mark Tremonti, dal basso di Brian Marshall e dalla batteria di Scott Philips con il fortissimo sentimento sprigionato dall’incredibile ugola del mai troppo lodato Myles Kennedy. Il buio e la luce convivono nella loro musica come due forze primordiali continuamente in lotta, come accade quando il crepuscolo sfuma nell’oscurità o quando una notte nera come la pece cede il passo ad una splendida e luminosa alba. Un equilibrio di opposti sempre dinamico e mai definitivo, in grado di donare un innato fascino romantico a composizioni strutturalmente piuttosto semplici ma, nel contempo, cariche di emozioni forti e laceranti.
“Slip To The Void” si configura fin dal principio come uno dei brani cardine di “ABIII”: l’essenza di questo album si potrebbe dire racchiusa in essa, nella sua intro oscura e suadente così come nel riff terremotante che esplode attorno al minuto e mezzo, scuotendo l’atmosfera come un tuono seguito da un lampo nel cielo oscuro. La prestazione vocale di Myles Kennedy è stratosferica e le indovinate liriche riescono davvero a trascinarci in un vortice oscuro da cui è impossibile sottrarsi. E il viaggio è appena iniziato.
L’incipit di “Isolation” strizza l’occhio al thrash metal più moderno ma la melodia è di quelle da mandare a memoria. Il crescendo emozionale è claustrofobico e opprimente e ci conduce fino ad uno spettacolare refrain che deflagra, liberatorio e imprendibile, mentre Tremonti macina riff durissimi ed assoli a gran velocità assecondato dal percussionismo vario e forsennato di Scott Philips e dal discreto accompagnamento di basso di Brian Marshall. “Ghost Of Days Gone By” è più leggera dal punto di vista strumentale, addirittura con qualche accenno indie nella prima parte, ma l’ispirato ritornello è denso di lacrime e malinconia ed immerso in un tale vortice di soffocanti emozioni da riportare alla mente gli Alice In Chains più plumbei e disperati.
«Do you feel the same
For what once remained
Yesterday is gone, we can’t go back again
Do you ever cry for the ghost of days gone by?»
Un altro brano simbolo degli Alter Bridge, dunque, totalmente calato sul loro stile e sulla loro poetica, così come la successiva “All Hope Is Gone”: meno impattante eppur molto ben congegnata, una sorta di semi-ballata in cui il climax delle strofe si va a scontrare in maniera del tutto riuscita con un refrain in calando di grande effetto. “Still Remains” vede per la prima volta in primissimo piano il basso metallico e rugginoso di Marshall a doppiare il grande guitar work di Tremonti con estrema efficacia, tuttavia un tale tappeto ritmico e sonoro non troverebbe l’adeguato compimento senza le sempre stupefacenti linee melodiche di un Myles Kennedy in forma mondiale, al top assoluto della categoria. Nelle sue vocals c’è tutto: pathos, energia e acuti imprendibili ed è altresì obbligatorio riconoscere che senza la sua caratteristica voce e la sua innata capacità di fondere in un tutt’uno sensazioni opposte come speranza e malinconia, rabbia e pace eterea, gli Alter Bridge non sarebbero probabilmente arrivati dove sono ora.
Il livello medio delle composizioni rimane altissimo, al punto che un’ottima traccia come “Make it Right” fa quasi una brutta figura, incastonata tra pezzi da novanta come quelli incontrati fino ad ora e quelli che seguiranno. La successiva “Wonderful Life” è semplicemente una delle più belle canzoni d’amore del decennio (e forse non solo): delicata e struggente nelle strofe in acustico quanto possente e romanticamente tempestosa sul refrain, con l’entrata in scena di tutti gli strumenti. Un gioiello di rara bellezza reso ancora più splendente da un intensissimo Myles Kennedy e al quale si contrappongono la velocità e il groove, a tratti quasi panteresco, della tostissima “I Know it Hurts”, coronata dall’ennesima hookline d’assalto. “Show Me A Sign” è più accidentata, forse il brano strutturalmente meno diretto di tutto “ABIII”, ma nemmeno in questo caso mancano melodie di grande pregio, “Fallout” segue con successo le orme di “I Know It Hurts” mentre l’incantevole “Breathe Again” si configura come una semi-ballad per una volta solare e solo velata della malinconia tipica della gran parte della musica contenuta in questo e nei precedenti lavori targati Alter Bridge.
Il trittico finale si apre e chiude con le due canzoni tutto sommato più deboli in scaletta: “Coeur D’Alene” e “Words Darker Than Their Wings”. Tutt’altro che scarse, perdono in ogni caso ai punti se messe a confronto con le restanti dodici, mentre tra di esse si frappone un altro lento semplicemente magistrale, la superba “Life Must Go On”. Cuore, corde vocali (portentose) e un testo vero e sentito: tutto questo ed altro ancora al servizio di una canzone che ha incantato centinaia di migliaia di rocker in giro per il mondo e offerto loro conforto, scommettiamo, in tanti momenti difficili.
Insomma, preferire il più dimesso “One Day Remains”, il fin troppo perfetto “Blackbird” o il più oscuro e metallico “ABIII” è puro esercizio di gusto, legato alla sensibilità e al background del singolo ascoltatore ed è proprio per questo che, contravvenendo al mio abituale metodo di espressione, esco allo scoperto e metto bianco su nero la mia personale preferenza proprio per il terzo capitolo della discografia dei rocker di Orlando. Troppe le canzoni indimenticabili che mi accompagnano, ogni singolo giorno, da un paio d’anni a questa parte, troppi i ricordi e troppo grande la soddisfazione per averli potuti vedere live a fine 2011 proprio nel tour a supporto di questo album, per non decretarne una promozione assoluta. Chi già li conosce sa fin troppo bene di cosa sto parlando, per tutti gli altri il consiglio è di dare una chance a Mark Tremonti e ai suoi Alter Bridge: potreste finire per chiedervi come diavolo facevate prima di conoscerli.
«Cause the sun always sets
The moon always falls
It feels like the end
Just pay no mind at all
Keep rolling
Rolling
Life must go on It must go on…»
Stefano Burini