Recensione: About Time
Il retro-rock, al pari del neoclassicismo in letteratura nell’ottocento, è una corrente che sta appassionando molti e trovando tuttavia la contemporanea opposizione di molti altri, proprio in virtù della sua natura spiccatamente celebrativa e revivalistica.
D’altronde – e pur condividendo in larga parte le motivazioni degli “osteggiatori”, NdR – occorre ribadire che non è davvero giusto fare della canonica erba il proverbiale unico fascio e nessuno più degli Horisont, freschi freschi di pubblicazione del nuovo album dal titolo “About Time”, può testimoniarlo.
La band svedese, qui più che mai, propone infatti un notevolissimo saggio di hard rock settantiano dai tratti occultisti mischiato con suggestioni di matrice proto – heavy. Se i primi nomi che vi vengono in mente sono quelli di Blue Öyster Cult, Led Zeppelin, Black Sabbath e Judas Priest non siete molto lontani dal farvi un’idea di quello che è il sound del quintetto di Gothenburg. Tuttavia la vera meraviglia risiede nel fatto che laddove molti colleghi paiono davvero fare niente più che un mero esercizio di stile, gli Horisont sono completamente immersi nella musica che fanno, quasi fossero prigionieri di un incantesimo o di una bolla temporale che li collega direttamente ai seventies.
Il risultato si riflette in dieci canzoni davvero belle ed ispirate, sorrette dal guitar work tanto calligrafico quanto sopraffino ad opera di David Kalin e Charles Van Loo nonché coronate dalle limpide – ed azzeccatissime – vocals di Axel Soderberg. Dieci brani brevi e dritti al punto ma non per questo poco curati o “tirati via” come dimostrano i curatissimi arrangiamenti e il sapiente incorporo di elementi progressivi, come nel caso di “Without Warning” o della spettacolare title-track, una vera e propria suite animata da un piglio e da atmosfere d’altri tempi.
Non mancano poi di emozionare anche la speditissima “Letare” con il suo andamento da cavalcata HM, la trascinante “Electrical” con quel ritornello che vi si stamperà in testa sin dal primo ascolto o la Queen-iana “Boston Gold”, fino ad arrivare alle più sabbathiane “Hungry Love” e – soprattutto – “Dark Sides”, con le sole “NIght Line” e “Point Of Return” a risultare un pelino sottotono.
Un bell’album a conti fatti, a patto che vi piaccia il rock vintaggio e che siate disposti a chiudere un occhio sul fatto che mentre di proprietà di mezzi tecnici ed espressivi, tra i solchi di “About Time”, ne troverete a bizzeffe, di inventiva ce n’è al contrario davvero poca.
Stefano Burini