Recensione: Abrahadabra
Chi non ha mai giocato a inventare la sua band ideale? Affiancando i propri musicisti preferiti per formare qualche supergruppo di soli All-Star? I Dimmu Borgir, per qualche tempo, son stati proprio questo. Con Shagrath alla voce, Galder alle chitarre, Nick Barker e poi Hellhammer alla batteria e Vortex al basso. Una line-up da far tremare i polsi. Con l’uscita di “In Sorte Diaboli”, però, è sembrata il classico gigante che partorisce il topolino. Un topolino di certo orecchiabile, ben scritto e suonato, anche superiore a molti altri prodotti dello stesso genere, ma non all’altezza della storia della band o dei nomi coinvolti.
Dopo qualche accusa lanciatasi a vicenda tra componenti ed ex appena scaricati, i Dimmu Borgir hanno tentato la strada di una rifondazione. Ecco dunque prendere in mano le redini di tutto i soli Shagrath, Silenoz e Galder, decisi a circondarsi, dal quel momento in avanti, di soli sessionmen. Il risultato è questo “Abrahadabra”, disco che, nelle dichiarazioni e nella grafica, sembra voler fare un passo indietro per riprendere il discorso iniziato con “Death Cult Armageddon”.
Per questo nuovo corso, i Dimmu Borgir hanno puntato su una specie di concept-album. L’ispirazione è venuta da Aleister Crowley (1875-1947), famoso come padre del satanismo moderno, e dal suo “Liber Al Vel Legis Sub Figura CCXX come dettato da XCIII=418 a DCLXVI”, comunemente conosciuto come “The Book of the Law” (“il libro della legge”, trad. it.). Questa opera sarebbe stata dettata a Crowley stesso da una entità invisibile e preterumana di nome Aiwass, durante il suo soggiorno al Cairo, l’8, 9 e 10 Aprile del 1904, un giorno per ciascuno dei capitoli che compongono il libro.
Al di là degli intenti dei musicisti, però, i presupposti non erano dei migliori.
Il disco, infatti, è stato anticipato da due canzoni: “Gateways” (di cui si è visto anche il video) e “Born Threacherous”, che non hanno certo fatto gridare al miracolo. La prima poteva essere teoricamente interessante per una serie di novità apportate al sound dei Dimmu Borgir. In particolare per l’inserimento delle voci femminili. Il risultato finale, però, si è dimostrato non all’altezza delle aspettative e della complessità della struttura, la quale sembra quasi composta da spezzoni differenti non ben arrangiati tra loro.
La seconda parte bene, con un black ‘n roll orecchiabile e ritmato, che sarà poi ripreso nei ritornelli. Ben presto, però, si perde. La causa è soprattutto di una serie di inserti orchestrali che suonano decisamente posticci e inutili, oltre che, in alcuni momenti, anche decisamente pacchiani.
Il resto del disco, purtroppo, non gode di una sorte migliore.
Innanzitutto, fin dal primo ascolto, si sente che gli strumenti non più suonati da musicisti presenti nel gruppo in pianta stabile, come batteria, basso e tastiera, risultano pesantemente penalizzati in sede di songwriting con partiture quasi scolastiche, tirate via, che sembrano scritte in economia, decisamente non all’altezza del passato. Inoltre il resto delle canzoni si fa fatica ad accostarle agli stessi musicisti responsabili dei precedenti dischi. In particolare da Galder, che nell’ultimo periodo ha sfornato un paio di dischi solisti di assoluto pregio, ci si sarebbe aspettati un apporto ben diverso a questo “Abrahadabra”.
D’altra parte sembra quasi che questi nuovi Dimmu Borgir abbiano voluto cercare di dimostrare qualcosa ai fan e agli ex-membri.
Sotto il profilo sinfonico, infatti, le partiture orchestrali sono magniloquenti come forse mai prima e, soprattutto, onnipresenti. Si nota, però, la mancanza di un certo gusto nelle composizioni e qualche difetto negli arrangiamenti. Elementi che non fanno che mettere in luce fino a che punto manchi al gruppo uno come Mustis.
Sotto il profilo vocale, l’assenza di Vortex è stata compensata da una parte dall’inserimento della voce femminile (mai usata prima) di Agnete Maria Forfang Kjølsrud, dall’altra da una serie di guest-vocalist d’eccezione. Qui e là lungo la scaletta fanno capolino Garm (ex-Borknagar) e Snowy Shaw (come si è visto poi partente dalla band). Infine bisogna citare anche il coro Schola Cantorum, presenza “ingombrante” quasi quanto le partiture sinfoniche, usato, però, spesso più come tappabuchi, che per effettiva necessità.
Un disco dalla doppia anima: da una parte tanta carne al fuoco, ma piuttosto disorganizzata, non del tutto organica nella sua espressione. Se “In Sorte Diaboli” aveva fatto storcere il naso perchè dai Dimmu Borgir ci si aspettava qualcosa in più, sia come ispirazione che come originalità, questo “Abrahadabra” pecca in esagerazione. Dall’altra passaggi troppo semplici, poco curati, che mettono in luce come l’attenzione dei musicisti si sia concentrata solo su una parte del songwriting facendo scadere il resto.
Per concludere, la band norvegese capitana da Shagrath torna a farsi sentire, dopo alcuni tumulti in line-up, con questo “Abrahadabra”. Un album con molte cose da dimostrare: soprattutto che la fuoriuscita di Mustis e Vortex non avrebbe inficiato la qualità e lo stile del songwriting. Obiettivo che, però, non sembra essere stato pienamente raggiunto per una serie di ragioni. Di certo la valutazione finale, tecnicamente parlando, non può essere positiva. Meglio un disco banale, ma orecchiabile, oppure uno inascoltabile, ma pieno di idee? Probabilmente, come dicevano i latini, “in medio stat virtus”, ma questo saranno gli acquirenti a deciderlo.
Tracklist:
01 Xibir
02 Born Treacherous
03 Gateways
04 Chess with the Abyss
05 Dimmu Borgir
06 Ritualist
07 The Demiurge Molecule
08 A Jewel Traced Through Coal
09 Renewal
10 Endings and Continuations
Alex “Engash-Krul” Calvi
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