Recensione: Acid River
Strana formazione, quella tedesca dei Dark Millennium. Un album, il quinto in carriera, composto da sette song ciascuna della durata di sette minuti (circa). È chiaro che alla base ci sia un significato, un perché. Tuttavia, anche scorrendo le note biografiche, non se ne rinviene traccia.
“Acid River” giunge alle stampe un trentennio dopo la nascita della band. Un lasso di tempo separato in due parti: la prima, dal 1991 al 1993; la seconda: dal 2015 a oggi. Più o meno. Fatto, questo, che ha avuto come circostanza più evidente tre passaggi di stile. Più o meno. Progressive, poi death e infine doom. Così, perlomeno, narrano le cronache.
Un percorso che non presenta dei tagli netti bensì delle sfumature, soprattutto per quello che riguarda gli ultimi due stili citati. Anche perché da alcuni anni a questa parte va piuttosto di moda indicare death/doom un genere a sé stante. Che, si ribadisce, almeno a parere di chi scrive, non pare avere senso: o è death sfumato di doom, o è il viceversa. In questo caso si può parlare di doom con corpose influenze death. Ma sempre di doom si tratta.
Questa incertezza nella focalizzazione degli stili spiega con precisione la difficoltà dei Nostri a centrare il proprio marchio di fabbrica, ad alimentare la propria anima con un soffio marcato, deciso. Non che non ci riescano, alla fine, ma quello che si prova sulla pelle, perlomeno durante i primi ascolti, è il solco lasciato da un’altalena che va un po’ di qua, e anche un po’ di là.
I Dark Millennium, però, non sono di primo pelo, per cui grazie alla loro esperienza e al loro retroterra culturale riescono, alla fine, a ritagliarsi uno spazio (ristretto) tutto loro all’interno dell’infinito insieme del metal moderno. Uno spazio delimitato da canzoni ove è più marcata la contaminazione del death, e altre in cui il doom segue con maggiore attaccamento i propri dettami natii.
Quello su cui non si può discutere è l’umore del disco, invece. Un mood che riesce ad attivare visioni ancestrali di quando la Terra, appena percorsa dall’Homo sapiens, era irta di pericoli, dominata dalla furia degli elementi. Emozioni cupe, buie, oscure, tenebrose; che si ritrovano fra i riff più lenti e cadenzati del full-length (‘Lunacy’). Ma anche fra i ripetuti passaggi arpeggiati dalla chitarra classica, come accade nell’incipit dell’opener-track ‘The Verger’, nella quale si trova un elemento che ogni tanto fa capolino fra i vari brani: la melodia. Sono istanti piuttosto radi, questi, poiché a dominare è, come da programma, la dissonanza. Dissonanza eseguita con abbondante sufficienza, questo sì, giacché mai fastidiosa per l’orecchio (‘Essence’).
Il ritmo dettato da Andre Schaltenberg, poi, spazia dagli slow tempo sino ai blast-beats (per esempio ‘Vessel’), movimentando non poco i singoli episodi. Michael Burmann e Hilton Theissen macinano accordi, questi sì, figli del doom. Così come le parti soliste paiono materializzarsi in stilettate roventi che trapassano l’etere. Un approccio, quello del combo di Bad Fredeburg, che a volte lascia spiazzati per via della direzione musicale mai incastrata su di un singolo binario. Il che richiama quanto detto a proposito del marchio di fabbrica, che da un certo punto di vista può essere interpretato come un pregio a vece che un difetto.
A voler essere oggettivi quanto più possibile, però, “Acid River” si mostra leggermente confusionario nel suo incedere massiccio, come peraltro dimostrano le irrequiete, caleidoscopiche linee vocali di Christian Mertens. I Dark Millennium si sforzano di creare musica coerente a se stessa ma non sempre ci riescono. Anche se, prese una per una, le tracce del platter non sono certo da buttare.
Solo per appassionati del doom, in definitiva. E si sottolinea doom.
Daniele “dani66” D’Adamo