Recensione: Act III: Self… Act IV: Goat
Non uno, ma ben due CD compongono la terza (e quarta) uscita degli Azrael, coppia di blackster americani che tentano con una certa testardaggine di uscire dagli schemi del black ridondante made in USA cercando delle sonorità inusuali che non esitano a chiamare post black metal.
Tale dicitura ovviamente vuol dire tutto e niente, ma le basi sono a prima vista abbastanza interessanti: registrano nello stesso studio di Xasthur, e in un certo senso si sente quel marchio di fabbrica dei Winterland Studios: i suoni distinti e dannatamente pastosi ricreano quella sensazione di “black apocalittico” che sta imperversando oltreoceano, nella più totale indifferenza della vecchia Europa.
Post black in realtà significa in un certo senso black avanguardistico, ma non nella misura feroce ed eclettica degli Arcturus o degli Ulver. Gli Azrael ci presentano sul piatto 18 tracce che in 130 (!) minuti si propongono di trascinare gli ascoltatori in un viaggio lento e malato negli abissi del black atmosferico. Per cui, di traccia in traccia, le sonorità sono scandite da infiniti riff di chitarra acustica, di chitarra elettrica e di giri di basso imperterriti, durevoli, ossessionanti, con brevi intermezzi di cantato in voce a volte stridula e a volte semplicemente sporca.
Ogni traccia ripete un pugno di riff fino all’esasperazione, e ogni disco richiama il precedente (o il successivo) nell’ipnotizzante refrain di chitarra che sembra non finire mai. Questo, purtroppo, è il grande difetto, che per alcuni può anche definirsi pregio, di questa coppia di dischi: la lunghezza e la ripetitività esasperante.
Rifacendosi a una certa scuola oscura e atmosferica di matrice germanica, i nostri Lord Samaiza e Algol (un velato richiamo ai Neptune Towers? Non sarebbe un caso) combattono lungo tutto l’album per preservare delle sensazioni uniformi per tutta la durata di entrambi i dischi, il che potrebbe risultare piacevole per chi è cresciuto a pane e Agalloch, ma potrebbe risultare decisamente ostico e irritante per chi non è preparato ad ascoltare due ore di black fortemente ambientale. Alcuni riff non sono niente male, e taluni controtempi di batteria e di basso rivelano una certa dose di talento in questi due americani. Tuttavia non è sufficiente, o meglio, è fin troppo.
L’intera opera è pervasa dall’eccesso, da un’insostenibile lunghezza che la rende soporifera e a lungo andare noiosa. Proprio non capisco il motivo di creare due CD, quando già un solo CD mette a dura prova la sopportazione dell’ascoltatore. Prese da sole, ascoltate isolatamente, le canzoni (e le numerose strumentali) riescono a rapire positivamente, ma già dopo tre o quattro tracce l’ascolto prosegue faticosamente, distruggendo l’esperienza musicale in toto.
Una piccola frangia di fan del post-suicidal-ambient black potrebbe gradire l’ossessiva ripetitività di questi due atti, ma per la maggior parte dei potenziali acquirenti questa potrebbe rivelarsi una sorpresa molto amara. A parità di prezzo ci sono un’infinità di opere migliori e più stimolanti, anche nello stesso genere proposto. Purtroppo, nonostante gli spunti obiettivamente intriganti, non mi ha convinto, e mi ha trascinato in un ascolto forzato e sonnolento. Consiglio dunque di passare oltre e attendere anni migliori.
DISCO 1: ACT III: SELF
1.Silence
2.Obscure Ritual Initiation
3.Seeping Into The Wound
4.Worship
5.Swing The Blade
6.Diminished
7.Down Into Blood
8.Sealing The Coffin
9.Unto The Eye
DISCO 2: ACT IV: GOAT
1.Death Shroud
2.Writhing
3.Bury The Soul Deep Into The Dawn
4.Beyond The Crypt
5.Lifeless Dungeon
6.Grave Wanderer
7.Nocturnal Goat
8.Submersed
9.Descent